Globalizzazione. Un neologismo poliedrico
L’Organizzazione per la Cooperazione Economica e lo Sviluppo (OCSE) definisce la globalizzazione come “un processo attraverso cui mercati e produzione nei diversi paesi diventano sempre più dipendenti tra loro, a causa della dinamica di scambio di beni e servizi e attraverso i movimenti di capitale e tecnologia”. Corretta, ma limitativa, e forse troppo semplicemente tecnica e neutrale, questa definizione scolpisce solo il profilo economico della globalizzazione che, per quanto assolutamente rilevante, non esaurisce tuttavia l’impatto complessivo del fenomeno nella storia dei nostri giorni. Gli aspetti culturali, sociali e politici, per esempio, non sono meno importanti, anche se poi il processo finisce per intrecciarli tutti in una combinazione di effetti dell’uno sull’altro. Il che attesta della sua poliedricità.
Vi è da dire, semmai, che per la forza espansiva del mercato, spinto dal principio di accumulazione capitalistaica, la componente economica appare la trainante. Ed è per questo che vale assumerla come chiave generale di interpretazione.
Va aggiunto per altro, che questo fenomeno non nasce nei nostri giorni; basta rileggersi il Manifesto di Marx e di Engels per vedere che esso era già immaginato fin dall’inizio del capitalismo moderno.
Il processo di accelerazione
La novità di oggi, che passa appunto sotto il neologismo di globalizzazione, sta piuttosto nel fatto che il processo ha subito una poderosa accelerazione dovuta al combinarsi di una serie di fattori di spinta. Ne citiamo solo alcuni:
ç quelli politici, per esempio, come la caduta del comunismo, la fine della guerra, la vittoria anche ideologica del capitalismo come modello economico fondato sull’economia di mercato, la creazione di aree sempre più vaste a crescente integrazione economica e politica ecc.
ç quelli tecnologici; pensiamo solo all’informatica e alla telematica con quello che sono capaci di incidere sulla produzione e omologazione di modelli culturali (un esempio per tutti può essere la TV satellitare e Internet) e di modelli produttivi;
ç quelli economici e finanziari, con una crescente mobilità di merci, capitali e servizi;
ç quelli sociali, basti pensare alla mobilità delle persone e l’evoluzione organizzativa della società verso comunità multietniche.
Ebbene, mentre fino ad oggi la formidabile forza espansiva di questo processo era frenata da ostacoli politici, come la confrontation fra i blocchi, e da quelli economici, come le politiche in varia misura protezionistiche, oggi la spinta crescente alla liberalizzazione da parte della generalità dei paesi, trova la sua principale molla nella preoccupazione, di certo fondata, che, diversamente, si è esclusi dalle opportunità dello sviluppo.
Preoccupazione peraltro abilmente alimentata dai “sacerdoti” del mercato i quali propongono appunto l’equazione: più libertà economica più sviluppo; gabellando, con ciò, per un verso, una verità parziale – nel senso che lo sviluppo ha effettivamente bisogno della libertà di intraprendere – come una verità assoluta di valore matematico, per nulla suffragata dalla realtà, e usando, per un altro, il termine sviluppo come sinonimo di progresso. Lo sviluppo è il presupposto del progresso, ma di per sé non lo garantisce se per progresso si intende un generale progressivo miglioramento delle condizioni di vita dei popoli.
Da un’analisi degli effetti della globalizzazione si possono registrare alcune realtà dove ad una crescita economica corrisponde parallelamente una stagnazione se non addirittura una crescita della povertà; e questo perché la distribuzione non è avvenuta per diffusione, ma per accumulazione, con la complicità o l’assenza della politica.
Chiavi di lettura
Ci sembra quindi che il termine globalizzazione debba essere interpretato secondo due chiavi di lettura: una oggettiva, come un fatto cioè, e quindi non opinabile; una ideologica e quindi altamente opinabile o comunque da sottoporre alla verifica della realtà.
Secondo la prima chiave di lettura il rapporto di ciascuno di noi con il mondo è ogni giorno crescente e più familiare, attraverso i gesti, le visioni, le percezioni che, nello scorrere della vita quotidiana, finiscono per annullare le distanze, attenuare le differenze o comunque ridurre lo stupore per le diversità. Insomma nella nostra percezione psicologica, ma anche comportamentale, che costituisce un consolidato culturale, il mondo da “poliverso” (prodotto della storia fino ad oggi) torna ad essere, anche in termini socio politici, “universo” (secondo una verosimile interpretazione tendenziale della storia da oggi in avanti).
Un processo il cui dinamismo è inarrestabile e, nello stesso tempo, ricco di straordinarie potenzialità, sol che si pensi alla capacità di fertilizzare rapporti di integrazione fra popoli, culture, economie.
In chiave ideologica, invece, l’assunto in base al quale il mercato, che sembra assumere sempre di più il carattere di scienza “teologica universale” (il Dio mercato) piuttosto che di una scienza economica, è il luogo di tutte le virtù, appare il messaggio di grande successo se si stima che in pochi anni il numero delle persone che vivono in sistemi ad economia di mercato, passerà da seicento milioni a sei miliardi. L’assunto di base di questa ideologia religione, è, per le ragioni dette, il primato del mercato e, quindi, non solo la sua autonomia rispetto ad altri ordini, ma la sua stessa sovraordinazione. il primato infatti nasce da questa visione, “divinamente ispirata”, che determina il ruolo del mercato come dominante rispetto a qualsiasi altro potere, democratico o no; capace per le sue intime virtù, di autoregolarsi come sistema mondiale, indifferente o addirittura insofferente a qualsiasi vincolo di tipo qualitativo o latamene politico.
Scontro di ruoli (non solo)
La buona politica nelle regole dell’economia è necessaria per ancorare lo sviluppo all’interesse della collettività. Il principio di accumulazione quantitativa se non temperato da equi meccanismi di distribuzione e da regole di rispetto di altri valori (dall’ambiente, alla lotta alla criminalità e allo sfruttamento ecc.) rischia una involuzione selvaggia destinata ad accrescere il vantaggio di pochi e il danno dei più.
In sostanza, solo una globalizzazione governata da regole ispirate a valori collettivi può sprigionare grandi virtualità di progresso e promuovere una crescita equilibrata senza sfruttamento.
Ma a questo fine si incontrano due ostacoli rilevanti di cui occorre aver coscienza: uno strutturale legato alla crescente complessità dei processi dei quali l’innovazione e l’accumulazione economica sono fattori dinamici ad alta velocità; uno politico istituzionale legato alla contraddizione tra il formarsi di poteri economici e di interessi di dimensione multinazionale crescente svelti nel gioco delle opportunità, da un lato, e ordinamenti giuridici e politici a sovranità solo nazionale, e per giunta lenti a prevedere e reagire, ben poco contando gli organismi di regolamentazione internazionale.
Il bilancio della General Elettric è superiore al bilancio statale dell’India; quale rapporto fra poteri concreti dell’economia reale (intrinsecamente “politici”) ed i poteri politici tradizionali? Gli stati nazionali, ci dice l’Istituto dell’Economia Mondiale di Kiel con una metafora, diventano “albergatori” che devono attirare il capitale mondiale.
Visioni e allucinazioni
Ma anche qui quale capitale e per che cosa, se è vero che uno degli aspetti più rilevanti, ma anche inquietanti di questa evoluzione sta nella crescita delle reti finanziarie piuttosto che dell’economia reale, al punto che viene autorevolmente citato il dato sconcertante in base al quale solo il 2% dei movimenti di capitale corrisponde agli scambi di beni e di servizi. Ed è difficile immaginare che la restante quota del 98% vada a processi di sviluppo reale distribuito.
Analogamente, nelle dinamiche che si sono scatenate sul mercato del lavoro, la concorrenza al ribasso alimenta lo sviluppo delle aziende con lo sfruttamento delle aree più depresse prive i qualsiasi protezione sociale del lavoro, abbandonando le aree di originario sviluppo. Dietro questa apertura e visione globalistica, potrebbe crescere infatti una sorta di deresponsabilizzazione degli imprenditori verso il loro Paese e le realtà sociali nelle quali sono nati e cresciuti. Una cosa è una politica di investimenti in aree da sviluppare; altra cosa è la delocalizzazione, come trasferimento reale che genera nuove povertà, per rilocalizzare in aree meno progredite, giocando soprattutto sul basso costo della manodopera, che in qualche caso ha prodotto, anche nei paesi avanzati, quel processo che passa sotto il nome di working poor: lavoratori di Paesi ricchi (nel Galles per esempio o in Westfalia) che guadagnano salari più bassi di paesi del sud del mondo.
Le ragioni dello sviluppo umano
Se, come è difficile negare, l’impresa è sempre più istituzione sociale, le comprensibili ragioni dell’economia devono contemperarsi con le sacrosante e più ampie ragioni dello sviluppo economico, civile e umano delle comunità. Vale ricordare che questo assunto è stato nel secolo scorso il campo di battaglia nel quale, nei paesi sviluppati, si sono raggiunti faticosi equilibri attraverso durissimi e costosissimi conflitti storici, sociali e politico ideologici di classe e di interessi che nelle realtà locali erano ben identificabili. Quali garanzie può dare e cosa può produrre una realtà molto più sfuggente, non solo per le dimensioni che vanno ben al di sopra dei poteri locali, ma anche perché facendo riferimento non più a persone fisiche, ma a realtà giuridiche di lontana provenienza e astratta identificazione e, quindi, molto meno sensibili e molto meno sollecitabili moralmente e psicologicamente, interpreta il ruolo e le responsabilità sociali dell’impresa con sensibilità molto affievolite?
Il dibattito su queste contraddittorie evoluzioni fra crescita e progresso, che il mondo va registrando con la globalizzazione, è aperto, mentre prepotente emerge l’appello ad un ruolo più adeguato della politica essendo diffusa l’impressione che in generale, rispetto alla globalizzazione, “l’economia gestisce, la politica subisce”. Appaiono fenomeni discutibili, ma significativi di rifiuto della globalizzazione come in Francia dove si è costituito un movimento contro di essa, mentre ovunque la forza travolgente dell’economia di mercato continua la sua marcia e gli aspiranti al banchetto dello sviluppo sono sempre più numerosi e disposti a tutto.
Se però continuerà ad essere il banchetto di Erode, il futuro sarà segnato dalla crescente tensione fra ricchi e poveri: dove i primi saranno sempre più ricchi e sempre meno (questo dalle statistiche ONU) e dove i poveri si troveranno, loro malgrado, sempre più numerosi, ma tendenzialmente pronti a saldarsi, in una nuova solidarietà di classe, fra i vecchi poveri e i nuovi poveri nei Paesi ricchi. E forse questo è il vero grande rischio del possibile conflitto globale che il futuro potrebbe riservarci: la globalizzazione può giocare, rispetto a queste prospettive, il ruolo del pompiere o quello dell’incendiario.
All’impegno, soprattutto politico, di tutti sta il tenere deste le coscienze con la riflessione e l’azione.
Benito Boschetto
economista,
già presidente del Consiglio
di Borsa di Milano