Giustizia e politica: la tutela dei diritti tra Scilla e Cariddi
Un nodo difficile da sciogliere
I tempi sembrano maturi per occuparsi, anche all’interno di questo breve spazio, di un tema assai complesso, ossia del rapporto non sempre facile tra giustizia e politica.
A tal fine occorre sgombrare subito il campo da un possibile equivoco: alludendo al rapporto tra giustizia e politica non si vuole richiamare il tema, classico per ogni giurista, della relazione tra il giudice e la legge, e della circostanza, di per sé insita in tale relazione, della «creazione» di diritto da parte dell’organo giudicante in sede di interpretazione e di applicazione delle norme prodotte dalle istituzioni pubbliche a ciò deputate. Si tratta di un tema affascinante e assai discusso, che potrà essere ripreso con maggiore ampiezza in altra occasione.
In questo momento pare utile declinare la complessità del rapporto tra giustizia e politica nel senso in cui l’attualità del dibattito pubblico suggerisce in modo ormai improrogabile: quale rapporto ci deve essere tra giudici e organi politici? Per quale motivo, da quasi vent’anni, e con forza crescente, i due «poteri» sono destinati a restare coinvolti in uno scontro sempre più acceso?
L’urgenza di un simile «ordine del giorno» è palese: sia la politica sia la giustizia si occupano di tutelare e di promuovere l’esercizio dei diritti dei cittadini, e per questa ragione esse formano le fibre più forti del tessuto connettivo di ogni società democratica. Vero è, tuttavia, che la logica del conflitto rischia di creare pericolose fratture e di travolgere, per così dire tra Scilla e Cariddi, l’obiettivo comune di garantire e implementare gli interessi rilevanti e meritevoli di cui sono titolari tutti i soggetti dell’ordinamento repubblicano.
Le scelte della Costituzione italiana
La centralità del rapporto tra giustizia e politica, nel senso anzidetto, è facilmente apprezzabile; basti pensare alla circostanza che la nostra Costituzione, che quest’anno compie sessant’anni, vi dedica diversi articoli, soprattutto laddove ne descrive i termini nel senso di una reciproca indipendenza, in primo luogo per evitare che la politica si appropri della giustizia e che le logiche delle parti contrapposte possano minare in radice l’obiettivo di assicurare un’imparziale ed «eguale svolgimento della funzione giurisdizionale».
A ben vedere, però, questa indipendenza è del tutto peculiare.
I giudici (tutti, sia quelli che svolgono funzioni giudicanti sia quelli che svolgono funzioni inquirenti) sono soggetti soltanto alla legge, non alla volontà degli organi politici. Essi vengono reclutati per concorso, secondo criteri tecnico-professionali. Tutta la loro carriera è gestita da un organo costituzionale vero e proprio, il Consiglio Superiore della Magistratura, presieduto dal Presidente della Repubblica e composto in misura prevalente (per i 2/3) da magistrati. Anche le azioni disciplinari, ossia le iniziative intraprese per «punire» eventuali scorrettezze degli organi giudicanti, sono demandate al Consiglio; il Ministro della Giustizia può, in questo caso, e se lo ritiene opportuno, soltanto avviare il procedimento. I giudici stessi, del resto, sono cittadini «non comuni»: per essi sussistono limitazioni al diritto di iscriversi a partiti politici, e come la Corte costituzionale non ha mancato di ricordare in un caso assai noto (sentenza n. 100/1981) essi sono tenuti a osservare, in generale, e anche nella vita privata, un contegno tale da non pregiudicare in alcun modo la dignità, il decoro e il prestigio di cui deve poter godere la funzione di cui essi stessi sono titolari e l’ordine al quale appartengono; la giustizia esige, innanzitutto, credibilità pubblica.
Ciò nonostante, la legge è il frutto migliore della politica; essa nasce dall’ordinario e regolare svolgimento del circuito politico-rappresentativo. Senza la legge, il programma costituzionale e le attese di giustizia sostanziale e di tutela effettiva non possono essere pienamente soddisfatte: i giudici, quindi, sono tenuti a osservare «solo» la legge; e ciò significa che essi, pur essendo indipendenti dalla politica, devono osservarne il frutto migliore.
Se manca una legge specifica, peraltro, i giudici devono comunque decidere; ciò applicando le altre leggi esistenti o i principi da esse desumibili (e in particolare quelli declinabili dalla Costituzione). I cittadini, infatti, hanno sempre un diritto incomprimibile e indegradabile a ricevere tutela, ad avere cioè una risposta dalla giustizia, sia che a essa si rivolgano per avere ragione del proprio diritto, sia che di fronte a essa si trovino per potersi e/o doversi difendere dagli addebiti che vengano loro sollevati.
Qualsivoglia possa essere il rapporto tra giustizia e politica, una cosa è certa: i diritti dei cittadini devono essere tutelati. E non si può non riconoscere che, in determinate occasioni, l’assenza della politica ha condotto a un ruolo più forte della giustizia, con conquiste notevoli, specialmente sul piano della tutela di alcuni diritti fondamentali, come la salute, ovvero di alcuni interessi parimenti primari, come quello alla tutela dell’ambiente, ma anche sul piano della lotta alla criminalità organizzata.
I problemi sul tappeto e le riforme in atto
I lineamenti dell’assetto costituzionale sono chiari; eppure sono chiari anche i numerosi problemi che, pur di fronte a questo solido impianto, restano sul tappeto, a detrimento, purtroppo, delle aspettative di tutela dei cittadini.
Alcuni di questi problemi sono essenzialmente problemi della giustizia tout court e della sua concreta amministrazione, al di là di qualsiasi considerazione circa la levatura morale o circa la preparazione dei giudici: i tribunali ordinari sono congestionati e in situazione di cronica carenza di personale; le cause, sia civili sia penali, hanno una durata di gran lunga superiore a quella di analoghi procedimenti in altri Paesi europei; attualmente, i giudizi d’appello vengono addirittura rinviati di diversi anni dal loro stesso promovimento; un semplice procedimento per ottenere la liberazione di un immobile da parte di un inquilino moroso o per avere ragione effettiva di un proprio credito può durare anche due anni.
È innegabile che, in quest’ambito, la politica e il suo frutto migliore, la legge, sono latitanti da tempo, e che le soluzioni di riforma finora prospettate assumono spesso le vesti di provvedimenti finalizzati a riaffermare la priorità della politica tout court o l’interesse di alcuni leader di partito piuttosto che dei diritti dei cittadini. La politica, quindi, tenta ancora di impadronirsi della giustizia, e le rimostranze degli operatori, giudici in prima linea, non sono incomprensibili. La giustizia, però, non è esente da critiche, e ciò per molteplici e concorrenti profili: il protagonismo mediatico di alcuni magistrati; la contiguità molto stretta, e non sempre di per sé virtuosa, tra magistrati giudicanti e pubblici ministeri; le immancabili «fughe di notizie» in numerosi processi penali, con conseguenti ricadute sulla stampa e sull’immagine pubblica di indagati in seguito prosciolti da ogni accusa; i conflitti di interesse che sembrano spesso insorgere nell’ambito di alcune magistrature speciali, sovente «impegnate» a districarsi tra l’adempimento dei doveri d’ufficio e lo svolgimento di incarichi esterni assai remunerativi.
Anche in questo frangente è altrettanto innegabile che è il volto costituzionale della giustizia, così come sopra ricordato, a essere latitante. Ed è altrettanto certo che, anche con riguardo a questi profili, le aspettative di tutela dei cittadini rischiano di restare disattese, soprattutto con riferimento al rispetto che le istituzioni giudiziarie dovrebbero sempre infondere e meritare. Quale soluzione migliore, quindi, di un ritorno effettivo e condiviso allo spirito della Costituzione?