Giubileo

di Cardini Egidio

L’anno della vita

«Dichiarerete santo il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nel paese per tutti i suoi abitanti. Sarà per voi un Giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia. (…) In quest’anno del Giubileo ognuno tornerà in possesso del suo».

[Lv 25, 10.13]

Dunque è di nuovo Giubileo.

L’occasione del passaggio al Terzo Millennio ha collocato questo Anno Santo in una prospettiva solenne e particolare, poiché per molti non è un Anno Santo qualsiasi, ma è un Giubileo di rottura temporale, nello stesso tempo fine e inizio, è momento di lettura di un passato straordinariamente vivo e tumultuoso e di un futuro per molti versi ignoto e ricolmo di speranze e di paure.

Da uomo che ha ricevuto, come tutti, la Rivelazione liberatrice di Gesù Cristo, antepongo la Scrittura alla Chiesa e vado faticosamente alla ricerca di un dato religiosamente significativo e storicamente attendibile: nella tradizione biblica il Giubileo era il momento della riaffermazione autorevole della centralità di un Dio che ristabilisce continuamente una gerarchia di forze e di valori secondo giustizia ed equità e che altrettanto continuamente libera da una schiavitù imposta e coltivata dall’uomo. L’anno giubilare era il riordino delle gerarchie secondo un criterio che più tardi Gesù Cristo, nel discorso escatologico secondo Matteo (Mt 24, 31-46), ricondurrà a una semplicità disarmante: il Regno preparato da Dio, che è Regno di liberazione, è dare da mangiare a chi ha fame, da bere a chi ha sete, assistere chi è malato, visitare chi è carcerato.

Pertanto la Chiesa ha ricevuto un’eredità che alcuni hanno sapientemente definito “regnocentrica”. Il Giubileo non è, a dispetto di qualche fraintendimento sospetto, il momento della riaffermazione istituzionale della Chiesa secondo un modello dottrinale fisso ed eterno, ma il ristabilimento periodico delle condizioni oggettive di fedeltà all’annuncio evangelico trasmesso e testimoniato.

In questo quadro è molto importante recuperare la capacità di un’analisi storica onesta e credibile, riconoscendo alcuni fatti e ponendo alcune domande precise. Abbiamo ricevuto in eredità, dal 1300 ad oggi, una tradizione giubilare spesso frammentata e contraddittoria, che tuttavia ci ha consegnato intatti i suoi valori fondamentali, per i quali il Giubileo è occasione di perdono, di remissione, di giustizia.

1.

Il Giubileo,

occasione di perdono

Come interpretarlo e viverlo? Oggi la Chiesa si trova davanti a un clima nuovo, promosso in parte dal Concilio Vaticano II e in parte da una parola definitiva che lo Spirito sta finalmente dicendo sul nostro tempo: il perdono non è un atto di liberalità che periodicamente la Chiesa assume, probabilmente dopo un riconoscimento formale della sua autorità, ma è lo stile del credente, la strategia vincente per l’affermazione della dignità umana difesa dal Dio incarnato. Inoltre è come se anche il vento avesse cambiato direzione, perché la Chiesa, non soltanto regala agli uomini il perdono di Dio, ma lo chiede umilmente.

A questo proposito, nel gesto proposto da Giovanni Paolo II il prossimo 12 Marzo, ci sono una novità epocale e un’insidia potenzialmente mortale. La novità epocale di una Chiesa che chiede il perdono degli errori commessi nel passato riconduce finalmente molte cose al loro posto, perché permette di sgretolare il muro di impenetrabilità dogmatica di chi ha spesso tacitamente ritenuto, in virtù di una Rivelazione ricevuta, di non commettere mai errori o comunque di non doverli ammettere per non compromettere la propria istituzionalità. Tuttavia esiste un’insidia mortale che risiede nel volere mantenere generica e indistinta una richiesta di perdono, che di fatto diventa un’operazione abile di tutela della propria immagine. Si tratta di individuare il peccato da riconoscere e la vittima che ha subìto il torto. La memoria storica dei credenti deve consentire loro di dare un volto ai fatti e alle vicende di tradimento del Vangelo. A titolo esemplificativo, nel secondo conflitto mondiale, la Chiesa, accanto ad alcune difese eroiche della dignità umana e a manifestazioni di amore per i deboli, può lamentare, riguardo a sé stessa, l’appoggio tacito dato da una grossa parte del clero croato agli “ustascia” di Ante Pavelic, con la morte di almeno 800.000 serbi, ebrei e musulmani, e poi l’ambiguità del clero slovacco verso il regime fantoccio filo-nazista di Mons. Tiso, responsabile della deportazione dell’intera comunità ebraica locale; e poi l’ostilità silenziosa dei cattolici polacchi verso i connazionali ebrei, i quali hanno contato quasi tre milioni di morti; e poi ancora il collateralismo delle rispettive Chiese nazionali italiana e spagnola verso i regimi fascista e franchista; e infine la bruciante e ancora troppo attuale controversia sull’atteggiamento di Pio XII verso il nazismo e la questione ebraica.

Una volta di più il XX secolo ha aperto ferite non ancora rimarginate: l’invenzione del modernismo, concetto astratto e vuoto, con il solo fine di rafforzare la stabilità dottrinale e le relazioni delle Chiese locali con la Sede Apostolica e di eliminare senza troppi riguardi vescovi e teologi scomodi; il sostegno interessato a parti in causa in conflitti rovinosi; l’appoggio concreto a regimi liberticidi e omicidi (eclatante è il silenzio colpevole e sciagurato sulla vergogna dei “desaparecidos” argentini); la mancata assunzione a pieno titolo della “scelta preferenziale per i poveri”, là dove il bisogno di tutelare istituzionalità, ruolo e forme di riconoscimento sociale ha chiuso il cuore e la coscienza di molti credenti; infine il coinvolgimento scandaloso di vescovi, sacerdoti, religiosi e laici negli orrori della guerra tribale tra Hutu e Tutsi in Rwanda e Burundi, dove è bene non dimenticare che la grande maggioranza della popolazione è cattolica.

Questo è il perdono che dobbiamo chiedere, consapevoli che invece lo dovremo comunque dare ad Augusto Pinochet e agli altri torturatori latinoamericani, ai quali purtroppo ancora molti battezzati permettono di credere di avere un credito di riconoscenza, anziché un debito di responsabilità. Lo dovremo dare anche a chi ha vessato e ha tentato di bruciare il patrimonio della fede nel nome di un marxismo-leninismo semplicemente ottuso e disumano.

2.

Il Giubileo,

occasione di remissione

Rimettere il debito ha sempre significato riconoscere l’infinita dedizione paterna di un Dio che dà, non toglie mai e condona il dovuto.

“Chi, tra di voi, al figlio che gli chiede un pane darà una pietra?” (Mt 7,9)

Oggi più che mai l’urgenza della remissione del debito assume una caratteristica al tempo stesso ecclesiologica e socio-politica.

In una prospettiva ecclesiale la remissione del debito assume la fisionomia degli uomini che bussano alla porta della comunità cristiana senza esservi ammessi a pieno titolo, dopo avere sbagliato o dopo che la Chiesa ne ha dichiarato una colpa. A questo proposito non è corretto ritenere che l’eventualità di riammettere i battezzati che hanno violato il diritto canonico e la morale cristiana sia astrattamente un problema di natura canonica o morale. È invece anche e soprattutto una questione di natura spirituale e teologica, nel senso più antropologico, cioè umano, del termine. In fin dei conti siamo responsabili dell’amore che riversiamo sull’uomo e nient’altro. Troppe volte nella comunità cristiana si sono usati due pesi e due misure per rimettere o non rimettere le colpe. Abbiamo oggi un’occasione storica per superare definitivamente questa contraddizione utilitaristica e per rimettere le colpe indistintamente a tutti, semplicemente perché uomini. Paradossalmente è proprio la coscienza del debito che ci è mancata, perché siamo sempre stati abituati a valutare in termini giuridici e soprattutto assai astratti il valore della colpa. Per cui possiamo dire che spesso molti orrori sono stati rimessi senza battere ciglio, semplicemente perché non sono mai stati riconosciuti nella loro gravità storica, mentre, al contrario, sono stati imposti pesi enormi per colpe piccole. Pertanto ci aspettiamo una Chiesa intrisa di misericordia e di gratuità, in grado di anteporre l’amore al diritto, secondo un’indovinata intuizione di L. Zega.

Però c’è anche una richiesta di remissione del debito che sta avanzando imponente e che assume una fisionomia tipicamente economico-politica. È il debito insolubile e sterminato dei Paesi del Sud del mondo, i quali sono costretti a restare perennemente in ginocchio davanti ai loro creditori, i Paesi del Nord. Il peso insopportabile della povertà di massa rappresenta da sempre una violazione aperta dell’ordine misericordioso di Dio, difeso rabbiosamente dai profeti di ieri e di oggi. Il condono del debito ai poveri rappresenta il vero volto di questa misericordia.

«E scoppierà il Debito,

e salterà in pezzi

la sigla di morte e di miseria.

E irromperà il giorno

della nostra festa.

Sognano i poveri

e Dio si risveglia».

[Pedro Casaldàliga, vescovo e poeta]

3.

Il Giubileo,

occasione di giustizia

La giustizia biblica è liberazione dai mali della storia, instaurazione di una logica che determina quella “terra sem males” (terra senza mali) cantata nelle comunità del Brasile più profondo, è ritornare in possesso di quanto dovuto nella prospettiva trascendentale, e quindi autenticamente cristiana, dell’uomo liberato e reso degno da Dio.

Qui si giocherà in futuro la partita per non separare irrimediabilmente la testimonianza evangelica dall’istituzione ecclesiale. Lo stile giubilare deve necessariamente associare carità e giustizia, liberandosi dagli elementi secondari. Paradossalmente anche le ventuno celebrazioni giubilari “di categoria” sono un dettaglio di scarso rilievo, così come lo sono i pellegrinaggi di massa e le dispense formali dell’indulgenza plenaria. Invece alcune scelte sono particolarmente urgenti:

  1. L’individuazione di linee pastorali chiare e demandate alle Chiese locali sulla scelta preferenziale per i poveri, al di là delle solenni e spesso inascoltate dichiarazioni di principio;
  2. la scelta definitiva per una spiritualità fortemente incarnata e storicamente compiuta dentro i drammi dell’uomo contemporaneo;
  3. la riscoperta, in chiave profetica, dell’annuncio che si fa denuncia e che purifica il rapporto tra uomo e Dio cristiano da ogni incrostazione superflua;
  4. il rifiuto del potere come logica regolatrice di rapporti umani e intraecclesiali.

Questo quadro indiscutibilmente utopico deve comunque radicarsi nella necessità storica di una svolta profetica e non istituzionale, una svolta per la vita. Dice ancora Pedro Casaldàliga che «vivere questo clima in modo strettamente evangelico significa annunciare il progetto di Vita di Dio secondo il Giubileo definitivo proclamato da Gesù». È la vita in abbondanza di Gv 10,10, è il pane agli affamati, è un sistema di relazioni eque e solidali, è la rottura del monopolio neoliberista del mercato.

In definitiva il Giubileo che ci attende è l’occasione per recuperare una linearità evangelica nel contesto storico e non invece per fare «una svolta tendenziale verso la religione», come già aveva intuito felicemente vent’anni fa J.B. Metz. Recuperare formalmente consensi appartiene alle strategie proprie dei movimenti religiosi carismatici o settari, la cui disincarnazione ha prodotto il classico modello borghese di religione, svilita e ridotta ad anestetico spirituale e a sovrastruttura di sostegno ai poteri forti.

Il mio e nostro sogno di una Chiesa evangelicamente alternativa ai modelli correnti condizionerà i miei personali gesti giubilari in favore di una Chiesa povera. Ma soprattutto, dopo il Giubileo, c’è la vita dei giorni quotidianamente vissuti e scanditi, dove si potranno ascoltare quelle che Paolo VI aveva descritto come «le voci profonde del mondo».

Inesorabilmente passeremo lì.