Fratellanza: un’idea che non può essere solo un’idea
Chi cerca di orientarsi nel multiforme universo delle parole ha una specie di riflesso condizionato: quando si pone un problema, si pone anche la questione della storia di questo problema.
Tutti sappiamo che il motto liberté, égalité, fraternité è lo slogan vincente della rivoluzione francese, il quale poi, per una sorta di osmosi, ha impregnato di sé la vita politica del mondo che è venuto dopo, tanto che si potrebbe considerare la riflessione politica otto e novecentesca come un ininterrotto commento degli ideali della rivoluzione del 1789. Tra i tre, la fratellanza è quella che pone il problema maggiore.
Archeologia di una parola
Il concetto di fratellanza e le parole per esprimerlo non sono presenti in Grecia. L’uomo greco non realizza la propria essenza nella comunità, se non secondariamente. L’uomo greco compie se stesso nella areté, nella virtù che corrisponde all’«essere belli e buoni» (kalokagathìa), cioè l’essere forti e saggi. L’individualismo dell’etica greca si nutre dei modelli omerici: la forza dirompente di Achille e la saggia prudenza di Odisseo. Singoli che agiscono in proprio, soprattutto e in primo luogo. Ne viene che l’uomo greco vive la comunità (la pólis) non per il suo valore intrinseco di collettività, ma in quanto insieme di individui virtuosi in cui l’esclusione – piuttosto che l’inclusione – è un’inevitabile e forse necessaria conseguenza. Fa parte della comunità solo chi possiede una forma di virtù, e la comunità è il composto derivato da questa unione di virtuosi.
L ‘ideale di fratellanza viene introdotto dal cristianesimo, ma nell’universo politico romano e medievale rimane soltanto un ideale relegato all’ambito religioso: la fratellanza predicata da Gesù Cristo non diventa una categoria politica, né potrebbe diventarlo nel panorama dei continui conflitti, della frammentazione e della gestione ristretta del potere che caratterizzano la nostra età di mezzo.
Agli albori della modernità, quando la riflessione politica rinascimentale comincia a muoversi in direzione della ricerca dello statuto della scienza politica come sapere autonomo e peculiare, la fratellanza non trova espressione se non implicitamente nelle opere del «filone utopico» che vede in Tommaso Moro uno dei massimi esponenti. Ma anche in questo caso, si tratta di una comparsa solo a livello di sfondo: non si trova una tematizzazione esplicita del concetto di fratellanza. Solo, per così dire, un anelito, o un vagito.
Il termine e il concetto di fratellanza attraversano in sostanziale silenzio l’età dell’assolutismo, a parte qualche sporadica apparizione. È il caso del Trattato sulla tolleranza di Voltaire (1763), dove si legge un’esortazione accorata: «Possano tutti gli uomini ricordarsi che sono fratelli! Aborrire la tirannia esercitata sulle anime, così come hanno in esecrazione il brigantaggio, che sottrae con la violenza il frutto del lavoro e della pacifica industria! Se i flagelli della guerra sono inevitabili, almeno non odiamoci, non straziamoci a vicenda nei tempi di pace…». Ma siamo già alle soglie del 1789. Qui, nella rivoluzione, è il nocciolo della questione.
Non che l’ideale di fratellanza nasca nel 1789: se ne parla e se ne scrive anche prima. Ma è nell’ambito della rivoluzione francese che la parola e l’idea giocano un ruolo di primo piano: dopo secoli passati in silenzio oppure sulla bocca e nella penna di pochi, è giunto il momento in cui la fratellanza comincia a graffiare la realtà. Diventa un grido di battaglia.
La rivoluzione, finalmente
Tuttavia ci si trova di fronte a un paradosso. Nell’immaginario collettivo la fratellanza costituisce una delle tre radici del dogma rivoluzionario, accanto a libertà e uguaglianza, sue sodali indisgiungibili. Lo si legge sui libri di storia e, fino a qualche anno fa, anche sulle monete francesi. Ma non c’è nelle carte costituzionali e nelle dichiarazioni ufficiali di quegli anni. Non è nominata esplicitamente nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino dell’agosto del 1789, dove si parla di uomini «liberi e uguali» (art. 1), ma non «fratelli». Non c’è nel progetto di costituzione di Sieyès del 1789, né nella prima costituzione della Francia rivoluzionaria del 1791, se non implicitamente nel preambolo, lì dove si dice che vengono aboliti tutti i privilegi e le eccezioni per fare spazio a un «diritto comune di tutti i francesi». Non c’è nel progetto costituzionale girondino del 1792. Non lascia una traccia esplicita nell’atto costituzionale giacobino del 1793, dove costituisce lo sfondo e la base della formula «scopo della società è la felicità comune» (art. 1). Non viene nominata nella costituzione dell’anno III (1795), né in quella del 1799 che apre ufficialmente la via al bonapartismo. Insomma, per farla breve: nelle carte che hanno cambiato il modo di vedere la politica, la partecipazione popolare, la gestione della cosa pubblica, le regole del vivere comune, la fratellanza non c’è. Uguaglianza e libertà sono ovunque nominate, definite e sviscerate. La fratellanza no. Perché?
Giustificazione di assenza?
La fratellanza manca dalle carte costituzionali rivoluzionarie perché non è un diritto naturale che si dà in modo immediato come la libertà e l’uguaglianza. Queste possono essere imposte per legge: uno Stato può impegnarsi a fare in modo che i propri cittadini siano liberi e uguali, ma non può in alcun modo imporre che si sentano fratelli. Lo aveva fiutato Kant, nel suo trattato Per la pace perpetua del 1795: «Lo stato di pace tra gli uomini, che vivono gli uni a fianco degli altri, non è uno stato naturale, il quale è piuttosto uno stato di guerra… Esso dunque deve venire istituito». Bisogna far nascere una «federazione di pace» che ponga fine a tutte le guerre per sempre e che metta in pratica il diritto di ogni uomo di vivere sulla terra, nel luogo che preferisca.
La fratellanza, che di solito accostiamo in modo automatico alla libertà e all’uguaglianza, ha una natura diversa rispetto a queste due: se ci si pensa bene, si vede come uomini liberi e uguali non necessariamente debbano vivere in spirito di fratellanza. Anzi, è più facile che libertà e uguaglianza siano in conflitto con il sentirsi fratelli. Tanto è vero che nelle carte costituzionali francesi e nello scritto di Kant la libertà è unanimemente indicata come il non nuocere ad altri: nella coscienza comune l’uomo libero tendenzialmente usa la propria libertà per scopi che sono del tutto diversi dalla realizzazione della fratellanza universale.
La difficoltà di essere un’idea
In Note invernali su impressioni estive Dostoevskij rilegge in modo critico le tre parole-cardine della rivoluzione. Ha gioco facile nel mostrare come la libertà e l’uguaglianza creino molteplici problemi dal punto di vista della loro teorizzazione politica e della loro realizzazione pratica, ma è sulla fratellanza che scrive righe feroci e visionarie. La fratellanza «ha costituito fino a oggi la principale pietra d’inciampo dell’occidente. L’uomo occidentale discorre infatti di questa fratellanza come d’una grande forza motrice dell’umanità, e non s’accorge che la fratellanza non la si potrà trovare da nessuna parte, fino a che essa non esisterà nella realtà». Si è fatto un gran parlare di fratellanza, scrive Dostoevskij, ma questo non ha portato a risultati sul piano pratico, perché l’uomo occidentale vive e si nutre di un «principio personale, il principio dello starsene per conto proprio, dell’autoconservazione intensiva, dell’autosufficienza, dell’autodeterminazione del proprio io personale, della contrapposizione di questo io alla natura tutta e a tutta la restante umanità». La fratellanza, insomma, non si dà: non per contingenze storico-politiche, ma per una ben più profonda essenza culturale che permea di sé il modo di essere dell’uomo europeo.
Prospettive post-rivoluzionarie
È chiara una cosa: della fratellanza è inutile parlare se non ne consegue una qualche forma di azione. Bisogna farla, renderla concreta. Rinunciare a un pezzetto di io e cederlo senza condizioni. Durante la rivoluzione francese se ne è parlato molto, ma nella realtà i presunti «fratelli» rivoluzionari si sono ammazzati e perseguitati a vicenda, contraddicendo nei fatti i proclami. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 riporta all’art. 1: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione, di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza». Dopo i totalitarismi del Novecento che hanno costruito la loro fortuna sull’atomizzazione di una società formata da uomini-massa e sul culto del capo – e quindi su ciò che vi è di più distante da qualsiasi forma di fratellanza -, rimane sulle nostre spalle la domanda che ci è stata posta a partire dalla rivoluzione francese e a cui non abbiamo saputo rispondere: siamo capaci di vivere come fratelli? Di farlo nella pratica, non soltanto di pensarlo o di parlarne. Il pensiero e la parola li frequentiamo da fin troppo tempo. Quello che manca è il viverci dentro.