Editoriale

di Stoppiglia Giuseppe

“Nulla è più oscuro delle cose che

abbiamo continuamente sulle labbra”

(Hugo Hoffemansthal)

Sto respirando, come tutti, la pesantezza del clima morale, sociale, politico in Italia. La corruzione, elevata a sistema, a patto di governo e di comando, ad organizzazione economica, ha falsato la politica ed ha probabilmente falsato l’economia.

Tutto mi sembra strumentale e mi rende scettico: le patetiche ritrattazioni degli industriali e dei politici, il consenso giornalistico, le prese di posizione severe dei vescovi. Del resto è chiaro: non è possibile lo scambio miracoloso di una classe politica ed industriale e sappiamo bene anche che la ghigliottina non è uno strumento di rinnovamento sociale.

Per ora ci accontentiamo che nel marasma di questi cambiamenti improvvisi, non siano solo i furbi a trarne profitto, ma anche gli onesti.

Dalle varie parti del mondo intanto arrivano echi di drammi e di tragedie.

In Iugoslavia: popoli contro popoli, atrocità su bambini e donne, massacri, distruzioni, campi di concentramento…

In Germania: giovani allo sbando, violenze razziste che rievocano eventi funesti.

In Brasile: bambini affamati, abbandonati e pure uccisi per le strade da una parte, ricchezze sfrenate dall’altra.

In Italia: a Genova e sulla costa sorrentina assistiamo ad autentiche guerriglie, promosse da imprenditori del crimine, per allontanare le persone di colore, giudicate colpevoli per il solo fatto di camminare sul suolo italico.

In tante, troppe nazioni si è ancora condannati per le proprie idee religiose e politiche, magari solo per il colore della pelle.

La domanda che mi martella è sempre la stessa, ed è sempre più pressante in me. Quando inizieremo una nuova umanità, dove ogni uomo sarà considerato fratello di fatto? Dovrà restare questa sempre e solo utopia, oppure può diventare realtà operante?

Per dare speranza ai giovani, aspettare domani è troppo tardi, oggi siamo appena in tempo.

Mi indigna moltissimo, per esempio, ciò che sta accadendo in Somalia. Non lo vedo per nulla disgiunto dalle grandi dinamiche in atto nelle popolazioni povere del pianeta.

Dal rapporto annuale dell’O.N.U., presentato nei giorni scorsi, sulle dinamiche demografiche, emerge un quadro terrificante. A causa del sostenuto tasso di crescita della popolazione nei paesi poveri e al peggioramento delle condizioni di vita ed ambientali, masse imponenti di persone si sono preparate e si stanno preparando a cercare lavoro e servizi nei paesi più ricchi del mondo. Questa è indubbiamente la base per lo scatenarsi di vasti conflitti che gli Stati Untiti si illudono di risolvere con la loro potenza militare.

Ebbene, basti osservare come l’aggravarsi di queste contraddizioni sia esploso palesemente proprio in Somalia. Il paese africano è l’esempio tragico di un circolo vizioso. Una politica di cooperazione autoritaria produce come risultato la necessità di un intervento militare, odioso nel suo cinismo e nello stesso tempo incapace di risolvere qualsiasi problema presente sul tappeto.

Se si continua su questa strada, prepariamoci ad un futuro di guerre. L’alternativa è quella di convincersi che l’incontro fra popoli, diversi per cultura, razza, religione e colore, non preparerà un futuro di guai, ma, come dice Spencer Tracy nel film “Chi viene a cena stasera” a proposito del matrimonio di sua figlia con un uomo nero, è l’unica strada da percorrere.

Dal mio angolo di osservazione, vivo la netta sensazione che i giovani oggi tendano ad accamparsi ai margini della città degli adulti. Noi li invitiamo a riappropriarsi della città oppure cerchiamo di cristallizzarli nei loro accampamenti?

Il tessuto culturale su cui è costruita la città, il suo flusso vitale è chiaramente marcato da un dissolversi della libertà nella coscienza perplessa. La caduta di riferimenti forti si sta accompagnando al moltiplicarsi di riferimenti sempre nuovi, ma senza alcun “centro di gravità”: e ciò ormai sta entrando a livello della singola coscienza.

Le immagini, per crearsi un'”identità” che la coscienza personale mutua dal sociale, sono molto fluttuanti. Viviamo cioè “identità deboli“. Non nel senso di poco capaci di affrontare le durezze della vita, ma nel senso di disponibilità a ridefinirsi in un contesto mutato. Tutte le opzioni sono ugualmente lecite e non impegnative: si guarda, si confronta, ma non si aderisce, o comunque l’aderire non impegna la coscienza. Il telecomando ne è l’icona. Con esso possiamo scegliere fra decine di canali televisivi, con un gesto che a nulla obbliga, neppure alla fatica di alzarci.

La parossistica moltiplicazione delle scelte annulla la possibilità della scelta stessa.

Se la libertà è la possibilità di scegliere fra mille cose tra loro equivalenti e non la possibilità di scegliere fra una cosa buona e una che buona non è, dubito che riusciremo a spingere i giovani a costruire la città. Se la libertà è il luogo dove giochiamo la nostra responsabilità rispetto il bene o il male, le scelte devono procedere, non seguire le esperienze.

Entrando nella “città” il giovane potrà incontrare in qualche Ente, oppure nelle organizzazioni politiche e sociali, ai vari livelli, delle ottime persone, capaci ed oneste. Addirittura scoprirà sindaci, amministratori, sindacalisti di grande purezza e lealtà, ma sinceramente, occorre ammettere, che la stragrande maggioranza della classe politica è lo scarto della società che, senza scrupoli, corrompe e si fa corrompere. È già in atto una rivoluzione qualunquistica nella nostra società, per fermarla occorrono gesti, azioni concrete, non proclami.

Ma come? Con chi?

Rischiando, accettando la sfida, ma soprattutto abbattendo le idolatrie e le falsità strutturali.

Sento che mi sto addentrando in un campo minato, ma insisto. L’odierna società non è né laica né secolarizzata: magari lo fosse! Il valore del denaro, della carriera, dello stile di vita consumistico non vengono mai messi in discussione. I nostri contemporanei, senza distinzione di classe o di grado di istruzione, non sembrano essere capaci di enunciare le condizioni che eventualmente potrebbero falsificare la loro morale o la loro fede.

Problemi psicologici o affettivi? Problemi sociali ed ambientali? Problemi del Sud del mondo? Per tutto non c’è che una scelta: “se avessimo più denaro… se investissimo di più… se producessimo di più…”.

Eppure l’idolatria consumistica risulta abbondantemente falsificata. Una delle poche certezze di questo mondo è che “la crescita illimitata è incompatibile con la limitatezza del pianeta”. Ma se si parte dal postulato “crescita economica = bene” quale prova contraria potrà smuovere la certezza granitica degli idolatri? Quando mai si sente un uomo politico, un economista (ma anche un operaio, un impiegato, uno studente, un “uomo della strada”) chiedere “meno” spese e “meno” investimenti in un settore, non per “risparmiare e dirottare” ma perché il meglio richiede talvolta non il “più” ma il “meno”?

Rinunciare ad abbattere queste idolatrie, non smascherare tali falsità porta ciascuno a chiudersi nel proprio guscio, senza più preoccupazione di libera discussione, di coerenza morale, di revisione continua della propria vita. Siamo come in una prigione dorata, dove ci siamo rinserrati per paura della propria libertà e di quella degli altri. È una rinuncia all’avventura della ragione e all’imprevidibilità della storia.

La fede del credente diventa rigida obbedienza ad un apparato ideologico costruito appositamente per la propria “sicurezza” cioè per il proprio egoismo, il “libero pensiero” dell’ateo diventa una gabbia al riparo da ogni pensiero libero. Spesso vengo interpellato che cosa penso sulla crisi religiosa della gioventù. Sono troppo rispettoso della gioventù per rispondere: ma la richiesta mi ha avviato ad una riflessione seria e mi ha orientato a cogliere nei giovani il senso di questa crisi. La convivenza con persone di altre culture e di altre esperienze storiche, mi ha abituato a non attingere informazioni sul bisogno di Dio dalle statistiche della sociologia religiosa. Ma, se questo bisogno di trascendere il mondo, che spinge migliaia di giovani a mettersi pellegrini sui sentieri delle più svariate esperienze mistiche, si spegne di fronte alle proposte religiose delle strutture ecclesiastiche, mi interrogo seriamente sulla validità della pedagogia cattolica. Mi sembra che il suo limite sia quello di formare ad una obbedienza di Dio, piuttosto che ad una esperienza di Dio. Di fare un cittadino della chiesa, piuttosto che un responsabile del regno.

Gli esperti, chiamiamoli con il loro nome, i direttori spirituali, insistono molto sull’obbedienza come accettazione di articoli di fede e di un’autorità di interpretazione e di disciplina morale, il maestro dello spirito tenta invece di incamminare su un itinerario ignoto, dove si avanza unicamente con tanto coraggio, accettando in partenza la prospettiva di perdersi. I buoni cittadini della chiesa, discepoli dei direttori spirituali, si sono perduti quando, caduti i muri della città di Dio, si sono trovati improvvisamente nella città dell’uomo. È certamente doloroso, ma non illogico, che questi discepoli abbiano perduto l’equilibrio e si siano fatti complici di fragranti ingiustizie. Sono stati preparati al servizio della chiesa e nella chiesa, non per la costruzione del regno in una società laica e pluralista. La pedagogia evangelica non si ispira al modello del cittadino obbediente, ma a quello del fratello da amare.

Il bisogno di comunità, motivo della crisi della gioventù, diventa comunione nel progetto cristiano. Vale a dire: costruire una vita che fa dell’altro il prossimo, carne della propria carne. Gli ostacoli insormontabili creati dalla società politica che lascia, con la gestione dei beni economici, separazioni profonde ed insanabili, antagonismi violenti, invece di scoraggiare l’iniziativa del cristiano, invita a scendere sui luoghi della gratuità e dell’oblazione, luoghi che avranno sicuramente ragione sulla morte.

Mi accorgo, ora, di avervi portato a vagare troppo su campi piuttosto insidiosi e complessi, ma mi piacerebbe tanto farvi gustare il sapore della speranza e il fascino inebriante della luce. Potrei dire che nel nostro tempo esistono due storie parallele. Una la si potrebbe raccontare così: in principio era l’esistente e l’esistente era ordine, armonia, bellezza, poesia: l’uomo di tutto questo fece caos, disordine, vuoto, infelicità.

L’altra è così: in principio esisteva il povero e la società l’aveva fatto vuoto, nullo, inesistente: lo spirito soffia su di lui, e lui comincia ad esistere, ad essere importante perché gli viene affidato il progetto di formare un mondo nuovo.

Ecco, credo proprio che il rifiuto dei giovani sulla porta del tempio sia questa convinzione che Dio realizzerà il sogno di un mondo nuovo solo con i poveri, non anche con loro, solo con loro.

I poveri nella favela Nova Brasilia a Rio de Janeiro nella Messa cantano così:

“Chi dice che non siamo niente,

che non abbiamo niente,

osservi le nostre mani aperte,

che portano l’offerta del nostro vivere”

Nelle mani non c’è nulla, ma loro sono in piedi, pronti ad offrire la vita, i loro occhi sono illuminati dalla speranza di un mondo nuovo che viene.

Agosto 1993