Editoriale

di Stoppiglia Giuseppe

Come ben vedete, riprendiamo con un vestito nuovo, diverso, austero.

Importante è continuare.

L’instancabile ricerca, la comunicazione più aperta nella lettura
dei tempi, è il lavoro che abbiamo scelto umilmente di fare.

Le difficoltà di orientamento, che è pure compito irrinunciabile
del pensiero, sono assai forti.

Ed è una grande gioia dello spirito, pur dentro la fatica e i
dissensi, quando sperimentiamo possibile, con interlocutori di altre
tradizioni culturali, di altre razze, di altri popoli, questa
comunione nella ricerca di umanità.

Crediamo che ogni parola seria non sia mai sterile. Crediamo ancora e
fermamente nel valore della teoria. È vero sempre e dovunque che
“tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare” ma,
pensiamoci un po’: “senza il dire si può partire?”.

Certamente, la cultura per diventare azione, ha bisogno di essere
fecondata dall’amore e dalla speranza; anche da una fede come
costitutiva apertura di ogni uomo, che si riconosce imperfetto, verso
il “Più”.

Ecco, forse tutti abbiamo questa fede, stiamo incessantemente in
ascolto. La solidarietà nella difficile esistenza diventa anche
forza morale comune.

Questo c’è dato di sperimentare e vogliamo continuare con gioia
profonda ed è motivo di fiducia.

Viviamo in un’epoca dove si finisce sempre per dogmatizzare la
cronaca e relativizzare il durevole.

Il passaggio improvviso da un modello di società dove il buon senso del contadino e dell’artigiano sono stati sostituiti da un’esplosione di rapporti nuovi, comportamenti imprevisti e complessi senza un periodo sufficiente di elaborazione e mediazione, ha disorientato le coscienze e sbriciolato i tessuti connettivi.

Ne è sorto uno sfaldamento dell’etica, quindi una rassegnazione e
dimissioni sulla scoperta del senso e dell’impegno collettivo.

L’uomo di oggi non ha di fronte la trasgressione o la colpa, ma il
non senso della vita collettiva e l’insignificanza della vita
individuale.

L’individuo cioè non trova più nel corpo sociale l’orientamento e
il fine, quindi l’identità, ma s’identifica attraverso l’invenzione
e la realizzazione di progetti personali.

L’unica relazione di partenza e quella che unisce ognuno ai propri
beni, posseduti in esclusiva. Il rapporto tra individui si istituisce
attraverso lo scambio di beni, la sua forma esemplare è il
contratto.

I beni sono rappresentati dal denaro, in esso si rispecchia l’indole
arbitraria e convenzionale della società

Per esempio la flessione del denaro in borsa arricchisce o
impoverisce il lavoro eseguito dal contadino e dall’operaio. Allo
stesso modo i processi attuali d’inflazione acuiscono il problema di
rimborso dei paesi poveri; per un potere (quello economico) i paesi
poveri debbono dare ora, quanto prima non dovevano restituire.

Così la solidarietà, da dato o meglio compito indiscutibile che
era, diventa problema.

I giovani vivono una specie di combinazione fra la destrutturazione
di un certo sistema di valori che nel passato poteva apparire
gerarchicamente ordinato al suo interno e l’attitudine a misurare
valori, norme, mete collettive e interessi generali, razionalmente
orientati, sulla base di bisogni e interessi prevalentemente
soggettivi ed individuali.

Da qui la sfasatura fra l’accettazione da parte dei giovani di alcuni
valori che sembrano simili a quelli dei “padri” e la
difficoltà che mostrano nell’organizzazione di questi valori in un
quadro d’insieme, in un sistema.

È la società della coscienza infelice, in cui il singolo non
interpreta più la società e non ne è interpretato.

Cade la sacralità del sociale e la socialità del Sacro e si
trasforma nelle sue forme secolarizzate.

Ciò che rimane sono i poteri.

Un esempio chiaro è il comportamento tenuto dai partiti. Questi da
associazioni private con la funzione di organizzare il cittadino in
campo politico hanno mirato e si sono identificati con le istituzioni
pubbliche; hanno realizzato il massimo dell’interesse privato e hanno
raggiunto il massimo di prestigio identificandosi con il potere
politico e distruggendo così i parametri etici del bene comune. In
questo modo è caduta l’autorità e cioè il servizio del bene
comune; ed è rimasto il potere (politico) come bene assoluto. Ed in
questo parametro la corruzione era una necessità morale.

In una visione politica di questo tipo il ruolo responsabile del
cittadino decade.

E dove c’è il dominio dei processi,delle strutture, non può
esistere un ruolo per l’etica. Vale a dire che un processo già
strutturato non implica responsabilità, e la non necessità della
capacità di scegliere fra bene e male non esige opzioni di tipo
morale.

C’è un ruolo nel processo meccanico che definisce esattamente la
collocazione e la decisione dei soggetti, ma non c’è nessun luogo,
nessun spazio etico. È teorizzata la fine dell’etica, sia quella che
riguarda il collettivo che il singolo, in quanto agire responsabile,
fondato su opzioni che fanno riferimento a valori specifici.

Eppure i processi anonimi dell’economia, della scienza e della
tecnica, per quanto vasti e autoriproduttivi non hanno annientato
l’uomo, né fatto sparire la responsabilità di ciascuno in rapporto
alle cose e agli uomini.

È chiaro e lampante che non si può fondare un ‘etica in modo
semplicemente razionale.

Ad esempio la ricerca scientifica sciolta dal rispetto del dolore
dell’altro si esalta nella proposta indefinita di cose nuove che
gratificano gli inventori , ma possono determinare squilibri del
singolo e nelle relazioni.

L’affermazione, il prestigio e con essi il denaro investito, coprono
la voce dell’altro ed emerge soltanto il singolo nel privilegio. Sta
qui la tragedia.

Il segno della nostra insufficienza civile e culturale è non saper
riconoscere l’altro. La grandezza rivoluzionaria di ogni vita sta nel
riconoscimento della dignità degli ultimi, veri modelli e misura
delle cose; il diritto nasce dal bisogno di vivere e non dal
contratto che suggella il diritto di possedere. Essi ci ricordano che
chi interpella il mondo dimenticando questo, non può né capirlo né
cambiarlo.

A modo di esempio, per non ripetere il tema del debito dei paesi
poveri, che sulla base di un potere economico non devono infrangere
l’ordine, lo schema, pena la confusione e l’anarchia, credo che la
guerra nella ex Iugoslavia pur nelle complicazioni del caso, nasce
dall’affermazione del diritto di possedere il territorio per
convenzioni politiche ed economiche, in contrasto al bisogno di
vivere e vivere umanamente che i singoli e i collettività hanno per
diritto naturale.

Il bisogno dell’altro è un mondo da abitare non un obbiettivo da
perseguire.

La solidarietà ha un carattere di necessità, che non è forza
fisica, né psichica, ma etica.

Non è scambio di favori o distribuzione di benefici, armonia di
parti, ma iniziativa, liberalità creativa: è dono.