Divino linguaggio primordiale

di Minozzi Mirca

Voce di bimbo che non parla

Mi ha sempre affascinato osservare come un bambino giunge alla parola e come attraverso essa comunichi. Comunicare attraverso il linguaggio è un aspetto essenziale del nostro essere al mondo, del nostro essere «umani». Appena viene al mondo, il bambino si trova immerso nella parola, come soggetto attivo dotato di capacità comunicativa e di relazione. È grazie a questa capacità che costruisce il sé.

Ma chi è il bambino che non parla?

È una persona con un disturbo nell’area comunicativa linguistica. Il disturbo nella sfera linguistica può investire globalmente tutti i livelli del linguaggio: la pragmatica, la fonologia, il lessico, la sintassi, la narrazione, sia nell’area della comprensione che della produzione. Per sopperire a questa mancanza, molti di questi bimbi usano in alternativa al linguaggio una comunicazione gestuale in modo abbastanza efficiente.

Questo altro alfabeto nutre la mente e la parola che in seguito verrà. Il gesto aiuta la parola a formularsi. Tanti dei bimbi che vedo, dopo aver sperimentato il gesto, cominciano «ad articolare», e le parole iniziano a presenziare la scena. Ma il lavoro da fare spesso è impegnativo sia per la terapista che per i genitori cheàdevono imparare a riadattare il proprio modo di parlare al livello di sviluppo del figlio.

Marco è uno dei tanti «piccoli principi» al quale ho tentato, con l’aiuto dei genitori, di restituire «parola». Quando gioco con lui provo una grande tenerezza per ciò che fa e che dice, per come mi chiede di essere dentro il suo gioco, dentro il suo mondo fantastico dove lui diventa «i pessoino ciallo e tu tella maina», «famo i mare». Si inizia così a costruire il nostro luogo di incontro dove il linguaggio del «fare» modulato dalla «parola» diventa vera condivisione, vero piacere. Sono momenti come questo che mi fanno capire quanta ricchezza alberga nella mente e nel cuore dei bambini. Dobbiamo recuperare attimi di sospensione, fermare il nostro frenetico tempo per restare a guardarli, ad ascoltarli, in un tempo nuovo dove si recupera la dimensione dello stupore e della meraviglia, dimensioni che innaffiano il nostro essere e ci permettono più facilmente di recuperare o trovare le strategie giuste per stare con il bambino.

Una diversa abilità a comunicare

Ogni bambino che incontro ha una sua unicità, ma il suo limite comunicativo non sembra in realtà per lui un vero e proprio limite. Il bambino è, oltre la sua difficoltà, oltre il suo limite. I comportamenti che osservo sono svariati. C’è il bambino impaurito, fermo in braccio alla mamma, con l’atteggiamento di chi chiede protezione e cura. C’è il bambino curioso, che esplora, manipola, crea e chiede d’essere guardato, riconosciuto, confermato. C’è il bambino frenetico, ingabbiato in un movimento compulsivo, confuso, afinalizzato, che chiede d’essere fermato, chiede confini. Quest’ultimo è il bambino più difficile e inquietante perché richiede all’adulto un’azione forte di contenimento e guida direttiva e autorevole.

Li osservo con attenzione e tutti, anche «i più malati», mi sembrano immersi nella loro naturale condizione di divinità. Tutti a loro modo «parlano» un primordiale divino linguaggio che è sempre quello della globalità, dove l’azione fa da padrona nell’espressione comunicativa. Spesso l’adulto fatica a decodificare tale linguaggio, perché lo perde nel corso della sua evoluzione. Mi capita spesso d’incontrare bambini che usano un linguaggio gergale assolutamente incomprensibile. Sono bimbi curiosi, sembrano impenetrabili. Li accolgo, metto tempi d’attesa, cerco il gesto giusto per incontrarli, mentre mi chiedo cosa sia nascosto dentro gli inintelligibili significanti prodotti «gagita… taoa… oiwa… aaaoa… catatatao… kemo…». La percezione di questo verbo mi fa desiderare di rendere quelle «non parole», «parole». Il mio dubbio è che, attraverso il processo di conquista di significati, io li allontano dal divino.

In fondo, mi dico, il linguaggio normalmente inteso è ambiguo: i significati vanno da una parte e i significanti vanno dall’altra. Il linguaggio ruba sempre la verità che si vorrebbe esprimere, in quanto distoglie dalla verità stessa. Allora mi chiedo cosa giustifica il portare il bambino dentro l’area della parola comprensibile? L’etica. L’etica vista come possibilità di portare verso l’Altro la «parola comune»àche è scambio, che è comunicazione, che è rapporto sociale. Sempre salvaguardando il vero linguaggio sociale del bambino, «il gioco», lingua privilegiata fatta di gesti, movimenti e mimiche che hanno lo stesso valore delle parole.

Genitori di fronte al bambino diversamente abile

Il bimbo che non parla preoccupa molto il papà e la mamma che non capiscono il perché delle difficoltà del loro bambino. «Non parla» – mi dicono affranti quando entrano nel mio studio – «cosa possiamo fare per lui?».

È allora che leggo nel loro volto e nelle loro parole un vissuto di frustrazione e di colpa, che si traduce nel sentimento di non essere stati capaci di fare un bimbo «bello e sano». Come è possibile che non parli, sembrano voler dire, è così normale parlare.

Per mamme e papà è normale parlare, il linguaggio emerge come d’incanto, dopo un susseguirsi di tentativi e di prove precedute da un ascolto rivolto all’adulto. In realtà non è proprio così, il linguaggio segue stadi evolutivi specifici: prelinguistico, interlinguistico e linguistico. Ma questa specifica conoscenza non è dei genitori. Loro fissano l’attenzione sulla realizzazione articolatoria, sulle parole, senza rivolgere la benché minima attenzione alla comunicazione non verbale, che in questi casi può e deve diventare utile strumento comunicativo.

Molto spesso sono «soli» di fronte al silenzioso universo del loro bambino, appaiono smarriti, incerti e sono spinti a cercare soluzioni che si possono caratterizzare per una assenza o eccesso di intervento.

Generalmente adottano modalità educative centrate sull’iperprotezione, con il rischio di non riuscire a portare il proprio bambino verso autonomie minime. Questo può diventare uno dei fattori che limita la disponibilità del bambino ad affrontare situazioni nuove, ad apprendere.

La preoccupazione, l’attenzione, la motivazione e la sollecita richiesta di quale atteggiamento sia necessario assumere per essere d’aiuto al proprio bambino, mi ha spinta a far entrare nel setting (ambiente, stanza di psicomotricità) terapeutico anche la famiglia, che diventa partecipe della terapia. In tal modo mamma e papà imparano a seguire e stimolare in maniera adeguata il bimbo anche a casa, la terapia diventa così un continuum e l’ambiente familiare il terreno più favorevole per un training (addestramento) linguistico e comportamentale che deve essere costantemente applicato. Restare a fianco del bambino in difficoltà mi ha permesso di capire quanto sia importante, accanto all’intervento terapeutico, quello educativo, l’uno non può stare senza l’altro. L’infanzia, come ogni stagione della vita, ha bisogno di nutrimento. Se impariamo a essere in armonia con i nostri bambini sarà più facile decodificare il loro linguaggio e farli crescere liberi e felici.