Digiuno
Nella Torà
E avvenne, durante il nono anno del suo regno, nel decimo mese, nel decimo (giorno) del mese, che Nabucodonosor, re di Babilonia, venne con tutto il suo esercito contro Gerusalemme; si accampò e costruì una fortificazione intorno a essa. E la città fu sotto assedio fino all’undicesimo anno del re Sedecia. Il nove del mese, la carestia nella città era intensa e non c’era pane per la gente (II Re, 25).
L’antefatto dell’evento riferito dalla Bibbia, risale a quando Sedecia – ultimo re del regno di Giuda – aderì alla lega Assiro-Egiziana contro Babilonia. Il profeta Geremia, durante una riunione degli alleati tenutasi a Gerusalemme, dichiarò che non ci si poteva più sottrarre al dominio babilonese perché questo era il volere del Signore; purtroppo non fu ascoltato. Nabucodonosor approfittò delle operazioni militari egiziane in Fenicia e decise di muovere il suo esercito contro il regno di Giuda: lo invase e assediò la capitale Gerusalemme il 10 di Tevet del 588 A. E.V.1
Dopo due anni, il 17 di Tamuz, fu aperta una breccia nelle mura della città santa e tre settimane dopo, il 9 di Av, fu incendiato e distrutto il Tempio di Salomone. Prima della nascita dello Stato d’Israele (14 maggio 1948), il popolo ebraico ha vissuto ininterrottamente, indipendente e libero sulla sua terra, per 850 anni: 440 anni dal giorno in cui vi entrarono con Giosuè fino alla costruzione del I Tempio e 410 fino alla distruzione del Tempio e l’inizio dell’esilio babilonese. Nei secoli successivi ci furono dei governi fantocci asserviti al dominatore di turno, fino alla definitiva perdita di indipendenza sotto l’imperatore Adriano.
Da allora, gli antichi rabbini istituirono dei digiuni per commemorare le date delle più gravi sventure, come strumento per piegare l’inclinazione al male dell’uomo e avvicinarlo al Signore. L’astensione dal bere e mangiare dà la possibilità di esprimere a pieno lo spirito dell’uomo. Mosè è stato per 40 giorni e 40 notti «senza mangiar pane e senza bere acqua»; un digiuno che gli permise di raggiungere un livello di spiritualità tale da «sentire cantare gli angeli», da renderlo simile a loro per ricevere la Torà, l’insegnamento divino che permette di santificare ogni nostra azione. Il digiuno ha dunque un duplice aspetto, commemorativo e penitenziale. Per mezzo del digiuno intendiamo ricordare eventi infausti che evocano un grande dolore e contemporaneamente espiare eventuali nostre responsabilità per ciò che di negativo è accaduto.
Digiunare è un’azione fondamentale per realizzare la Teshuvà2.
La Teshuvà permette, al pentito sincero, di riabilitarsi in ogni momento e di essere di nuovo gradito al Signore. L’uomo pentito può riscrivere il suo passato affinché sia senza macchia e predisporsi per un nuovo futuro. Normalmente si ritiene che l’uomo non possa più influire sul suo passato negativo, tuttavia l’Eterno, che trascende i limiti temporali come ogni altro limite, ha fatto sì che con la Teshuvà l’uomo abbia la possibilità di operare sul suo passato. Non solo possiamo neutralizzare e annullare il passato negativo ma si può perfino invertirlo, in modo che diventi positivo. I peccati passati possono trasformarsi in meriti futuri. Il digiuno è un serio momento di introspezione attraverso il nostro dolore; mezzo per un’analisi che ci fa giungere a un rafforzamento e a un chiarimento della via che dobbiamo percorrere nella consapevolezza degli errori commessi; espressione di un triste lutto del passato e, al tempo stesso, gioioso proposito per un futuro migliore.
Adolfo Locci
1 E.V. sta per Era Volgare: questo termine designa il periodo che nel sistema di datazione adottato nell’Occidente cristiano è definito «dopo (la nascita di) Cristo».
2 Questa parola, che deriva dal verbo shuv, significa ritorno o, più comunemente, pentimento.
Nel Corano
Nelle fonti della religione islamica troviamo l’indicazione di diversi tipi di digiuno, alcuni hanno uno scopo penitenziale, di riparazione delle colpe: «Chi involontariamente uccida un credente, affranchi uno schiavo credente… E chi non ne ha i mezzi digiuni due mesi consecutivi per dimostrare il pentimento davanti ad Allah» (IV,92), oppure per un mancato giuramento (V,89), uccisione di selvaggina in stato di sacralizzazione (V,95), o divorzio dichiarato troppo frettolosamente… Sappiamo inoltre che il Profeta faceva digiuni volontari, tra cui quello di Ashura, in concomitanza con quello degli ebrei di Medina che celebravano la vittoria di Mosè sul Faraone, digiuno che anzi fu obbligatorio nel periodo in cui non era ancora rivelato quello di Ramadan.
Il digiuno principale, però, è quello del mese di Ramadan, digiuno rituale che costituisce il quarto pilastro della religione islamica. Nei versetti che lo istituiscono ci viene indicata subito, come sua prima caratteristica, quella di essere in continuità con le precedenti tradizioni religiose: «Oh, voi che credete, vi è prescritto il digiuno, come era stato prescritto a coloro che vi hanno preceduto» (II,183). Con ciò è ricordato il legame dell’islam con le altre rivelazioni, in un rapporto che non è di totale assorbimento, infatti è anche detto «Se Dio avesse voluto avrebbe fatto di voi un’unica comunità, vi ha voluto provare invece con quel che vi ha dato…» (V,48), ma di conferma e discrimine. Vengono inoltre precisati i modi, i tempi e i significati del digiuno, fissati nel Corano stesso: «È nel mese di Ramadan che abbiamo fatto scendere il Corano, guida per gli uomini e prova di retta direzione e distinzione. Chi di voi ne testimoni (l’inizio) digiuni. E chiunque è malato o in viaggio assolva (in seguito) altrettanti giorni. Allah vi vuole facilitare e non procurarvi disagio, affinché completiate il numero dei giorni e proclamiate la grandezza di Allah che vi ha guidato» (II,185).
Questo carattere preminente del digiuno di Ramadan come dono di Dio, della Sua parola, della Sua guida, spiega forse la grande letizia che anima il popolo musulmano durante questo mese. Il digiuno si accompagna a una più intensa preghiera, nelle molteplici rakat compiute nelle notti in moschea, a una più profonda attenzione verso gli altri, sia nei termini di evitare ogni gesto cattivo, pensiero e giudizio, sia nell’aiuto fraterno e sollecitudine verso i più poveri. Infatti Anas riferisce che il Messaggero di Allah, pace e benedizione su di lui, disse: «Ci sono cinque cose che rompono il digiuno: la menzogna, la maldicenza, raccontare delle frottole, giurare il falso, la cupidigia e gli occhi concupiscenti». E ancora avverte il Profeta: «Molti ricevono dal digiuno niente altro che fame e sete». Digiunare significa anche perdonare le offese: «Se qualcuno discute con un altro e lo insulta, dica il secondo: sto digiunando, sto digiunando» (hadith). La sollecitudine verso i poveri, poi, entra nel Ramadan come elemento costitutivo; infatti è prevista la raccolta di una tassa fissata in misura stabile, per aiutare i poveri (zakat), vengono allestite mense per chi ha difficoltà a mangiare a casa propria…
Il digiuno, dunque, è assenza, distacco da ciò che ci piace e necessario in questo mondo per aprirci a quella Presenza che ci abita silenziosamente e pervade l’universo, verso l’Altro e l’aldilà. Come per Abramo, la rivelazione dell’Uno avviene attraverso la negazione del conosciuto, il suo tramonto. È in questo gioco di anticipazioni e attesa del Di Più, che si gioca il digiuno di Ramadan, con il suo ritmo profondamente umano, di astensione dal cibo e ritrovarsi al tramonto e prima dell’alba con ciò che ci è caro e indispensabile al vivere: «Fate il suhur (colazione prima dell’alba), disse l’inviato di Allah, ché c’è in esso una benedizione»; luci e ombre, gustare e astenersi si alternano sapientemente per condurci verso la luce che non muore.
Patrizia Khadija Dal Monte
Nel Nuovo Testamento
Parlare del digiuno in un’epoca come la nostra, così attenta al «tutto e subito», pare stonato, o quantomeno difficile e d’altra parte non ci si può esimere dalla constatazione che esso sia un tema quantomeno ambiguo, che può nascondere tranelli.
Se da una parte infatti il Primo Testamento ne attesta la pratica come segno esemplare di umiltà, di sottomissione a Dio, di penitenza, come gesto eccellente per accompagnare la preghiera di supplica, dall’altra non mancano i rimproveri dei profeti che vedevano in esso una sorta di compromesso con il paganesimo, una specie di rito con il quale piegare Dio alla propria volontà. Vi era poi il rischio di far confluire in esso e solo in esso la perfezione della fede. Molti sono i rimproveri per «non digiunare più fra litigi e alterchi… perché voi digiunate e rapinate il povero…» (cfr. Is 58,2-11).
Nel Nuovo Testamento Gesù parla poco del digiuno: egli preferisce invitare alla condivisione più che alla privazione. In ogni caso questa pratica è raccomandata senza l’ostentazione che la rende appannaggio dell’incredulo e non del fedele: «Quando digiunate non fate come gli ipocriti… tu quando digiuni profumati la testa perché la gente non veda, ma solo il Padre tuo… e il Padre tuo che vede nel segreto ti ricompenserà…» (cfr Mt 6,16ss).
La Chiesa continua a proporre la pratica del digiuno: nella sua materna attenzione essa ci indica una via per custodire, ravvivare, fortificare la nostra fede. Ecco perché diventa importante capirne i motivi profondi.
La prima sottolineatura è che in esso non vi è mai una proposta da fachiri: il suo fine non è quello di presentare una buona prestazione. Il verso del digiuno cristiano è centrifugo non centripeto: mira a decentrarsi. Esso infatti è sempre collegato alla preghiera e all’elemosina, cioè all’apertura all’Altro e agli altri (cfr Mt 6,16.1618, nella liturgia del mercoledì delle ceneri che raggruppa questi tre temi: «Quando fai l’elemosina non suonare la tromba davanti a te… Quando preghi entra nella tua camera e prega il Padre tuo nel segreto; quando digiunate non assumete aria malinconica…»).
Il tratto più profondo del digiuno è quello della mancanza: ecco perché è inviso. Esso è oscurato perché sembra che nulla oggi ci possa mancare, oppure viceversa lo troviamo esasperato nelle patologie come l’anoressia, o sfruttato per temi sociali, come avviene nello sciopero della fame, per richiamare l’attenzione su questioni o temi scottanti. Il digiuno cristiano non ha nulla a che fare con questo: non si vede, non fa clamore, non mira a cambiare i connotati. Esso vuole invece farci scoprire la mancanza, la consapevolezza del nostro limite e del nostro peccato, la privazione, per sentire in noi una fame molto più profonda, quella di Dio.
Il digiuno da riscoprire è molto più ampio: il digiuno della salute che è la malattia, quello della giovinezza che è la vecchiaia, quello della vita che è la morte. È come se il digiuno vissuto nel segreto ci aiutasse a riscoprire il valore dell’essere privati di… per essere colmati da…
È proprio nella mancanza che Gesù trova le radici del digiuno: «Verranno giorni in cui lo Sposo sarà loro tolto, e allora in quei giorni digiuneranno» (Mc 2,20).
In questo tempo del già e del non ancora, in attesa dello Sposo viviamo i nostri vari digiuni per aprirci profondamente all’alterità.
Elide Siviero
Adolfo Locci
rabbino capo comunità ebraica di Padova
Patrizia Khadija Dal Monte
membro del consiglio direttivo UCOII
Elide Siviero
Ufficio diocesano per il catecumenato, diocesi di Padova