Dietrich Bonhoeffer: un uomo vero, un cristiano
Nel cinquantesimo anniversario della morte di Dietrich Bonhoeffer offriamo con gioia e discrezione la riflessione cordiale di Enzo Demarchi, noto ai lettori di Madrugada, per continuare la ricerca di un’etica che parta dall’altro, nella vita concreta.
Di Cristo, Bonhoeffer diceva: l’Uomo che esiste per gli altri.
È un’affermazione che apre gli steccati della religione e sconfina nella fede che è “vivere davanti a Dio senza Dio”.
Sentii parlare per la prima volta di Bonhoeffer tanti anni fa (1964), quando le conoscenze fatte in una “route Pax Christi” in Piemonte mi permisero di fare un viaggio in Germania, ad Hannover. Amici cattolici mi fecero conoscere alcuni ambienti del mondo protestante (luterano), e fu in casa di un “sovrintendente” (come a dire vescovo) delle comunità che udii pronunciare il nome di Bonhoeffer. Se ne parlava con grande simpatia, come di un segno dei tempi nuovi per il suo deciso spirito ecumenico e per la testimonianza di fede data nei tempi tragici del nazismo e della guerra, fino alla condanna a morte come oppositore del Reich e partecipe della fallita congiura contro Hitler. Ricevetti allora in dono un libretto contenente le sue lettere dal carcere, quelle che sarebbero poi apparse tradotte in italiano sotto il titolo Resistenza e Resa.
Una decina d’anni dopo, scoppiato ormai il boom teologico-letterario degli anni ì’70, ebbi modo di interessarmi a una revisione della traduzione della biografia del Bethge su Bonhoeffer. Conobbi quindi un po’ in dettaglio la vita di questo teologo, cristiano, pastore (luterano) e uomo del suo tempo. Mi piaceva parlare di un personaggio così simpatico, aperto, coraggioso, della sua problematica teologica (era allora vivo il dibattito sulla teologia della secolarizzazione…).
Ma fu solo in un terzo tempo – più tranquillo, più lontano dall’agitazione e dal clamore, talora vano, suscitato da ogni dibattito di idee – che incontrai Dietrich Bonhoeffer. Fu quando un “vivente nel Signore” (questo è un “morto” per la fede cristiana) parlò di Cristo al mio cuore. Leggendo e meditando qualche suo scritto, alcuni episodi della sua vita, mi accorsi che c’era uno che mi parlava a partire dalla sapienza del cuore. Più che un teologo, c’era un semplice “credente”, più che un pastore, un semplice “cristiano” che mi diceva cose nuove, mai udite prima.
Ho parlato di incontro
Ho parlato di incontro a ragion veduta. Posso conoscere tante persone, vederle ogni giorno, parlare con loro di varie cose importanti, ma in realtà non incontrarle mai. Rimango solo con le mie idee, mi illudo di ascoltare e di comunicare, ma il mio cuore è vuoto e muto. Non c’è veramente altri davanti a me, qualcuno che, invitandomi a riconoscerlo per quello che egli è, riveli simultaneamente me a me stesso; qualcuno la cui parola provenga dal centro dell’essere (dal “cuore”) e raggiunga la mia persona, scuotendola, facendo cadere le squame dagli occhi, la maschera dal volto, suscitando risposta, la cui parola sia rivelatrice e interpellante. Questo intendo per “incontro”.
Si capirà come, a questo punto, più che parlare di Bonhoeffer il mio sia un parlare a lui perché ci faccia ascoltare alcune sue parole.
“Questa è la fine – per me l’inizio della vita”: sono le ultime parole di cui ci sia rimasta testimonianza di Bonhoeffer, pronunciate la vigilia della sua impiccagione (9 aprile 1945). Quando gli viene ordinato di prepararsi per andare con le guardie, egli sa che è la morte che lo attende. In un momento in cui è impossibile recitare una parte, in una situazione di squallore, abbandono, paura, angoscia, si può solo attingere a ciò di cui si vive abitualmente nel fondo del proprio cuore. Bonhoeffer è un uomo che da tempo cammina verso una fine che è inizio, una morte che è vita. Com’è possibile questo? In un modo solo: la fede di Bonhoeffer è davvero “visione di Cristo risorto”, egli crede nella vittoria di Cristo sulla morte (e su tutti gli orrori che la precedono) nell’unica maniera vera ed efficace: la morte di Cristo continuava a compiersi in lui per poter entrare nella Vita, dopo aver cercato, nell’oscurità dei tragici avvenimenti del suo tempo e della sua patria, la liberazione che viene da Dio attraverso l’Uomo, e che era per lui in quel momento la liberazione del popolo tedesco. Egli precipita nel baratro della morte pensando alla vita. La morte è il compimento del battesimo: immersione nella morte-risurrezione di Cristo.
Odio ciò che vuol risarcirmi delle cose perdute
Chi però pensasse a questo andare alla morte in termini di trionfante e impassibile certezza, non capirebbe nulla di che cos’è la fede nell’esistenza concreta di un uomo. Certezza e visione di fede non impediscono l’angoscia della tenebra che sembra tutto inghiottire. La fede di Bonhoeffer è la fede umanissima di un animo sensibilissimo, quindi una fede provata e tormentata. A quelle ultime parole, così scultoree da suggerire l’impassibilità, basterà associare quelle della poesia Passato, da lui scritta in carcere, dopo una visita della fidanzata. Presagendo che il promesso amore precipiti in un passato irrecuperabile, così sfoga i suoi sentimenti:
Se i miei sensi
non ti possono trattenere,
vita che passi, che sei passata,
io voglio pensare e ancora pensare,
finché troverò ciò che ho perduto.
[…]
Gli occhi e l’anima si incattiviscono
odio ciò che vedo,
odio ciò che mi scuote
odio tutto ciò che è vivo e bello,
ciò che vuol risarcirmi delle cose perdute.
Io voglio la mia vita, la mia vita esigo
di ritorno,
il mio passato,
te!
Sono le ultime righe della poesia (“la cosa più importante, per esse è nato tutto il resto; ad esse io mi sorreggo e dovrai farlo anche tu!”, scriverà alla fidanzata) a dirci la tempra della sua fede:
Ti cerco eternamente
invano,
te, mio passato, il mio?
Tendo le mani
e prego
e sperimento la realtà nuova:
ciò che è passato ritorna
come il pezzo più vivo della tua vita
attraverso la gratitudine e il pentimento.
Di Dio cogli nel passato il perdono e la bontà
prega che Dio ti assista oggi e domani.
Il passato (la vita, l’amore) annullato per sempre? Nella preghiera di fede si sperimenta la realtà nuova: il ricupero della vita nella gratitudine e nel pentimento. Ancor più concisamente, nella lettera del 23 agosto 1944: “La mia vita passata è sovrappiena di bontà da parte di Dio e sulla colpa sovrasta il perdonante amore del Crocifisso”.
Gioia del patire, la cosa è troppo intrigante
“Dobbiamo sempre di nuovo, molto a lungo e in tutta tranquillità, immergerci nel vivere, parlare, agire, soffrire e morire di Gesù se vogliamo conoscere cosa Dio promette e cosa egli compie. é certo che noi possiamo sempre vivere nella prossimità e alla presenza di Dio, e che questa è per noi una vita totalmente nuova… é certo che nel patire è nascosta la nostra gioia, nel morire la nostra vita”. é un brano della già citata lettera del 21 agosto ì’44.
La gioia del Patire! La cosa è troppo intrigante. Vado a rileggere il dialogo di frate Francesco con frate Leone sulla “perfetta letizia”, al cap. VIII dei Fioretti. Mi interessa la conclusione del dialogo, dove Francesco cita 1Cor 4,7 e Gal 6,14 per far vedere come l’unica cosa di cui ci possiamo gloriare è la croce del Signore Gesù. Ma perché questa gioia, questa perfetta letizia nel patire? L’uomo è forse contagiato dal sublime masochismo di Dio? Punto di partenza e di arrivo per Francesco e per Bonhoeffer non è la sofferenza ma la libertà dell’amore.
Imparare a credere
“Ho sperimentato più tardi, e continuo a sperimentarlo ancor oggi, che solo nel carattere pienamente terreno della vita (Diesseitigkeit = caratteristica della vita dell’al di qua) si impara a credere. Quando si sia totalmente rinunciato a voler fare di se stessi qualcosa – sia un santo o un peccatore convertito o un uomo di Chiesa (una cosiddetta figura sacerdotale), un giusto o un ingiusto, un malato o un sano – e questo io chiamo carattere pienamente terreno della vita: viverla nella pienezza dei suoi compiti, interrogativi, successi e insuccessi, esperienze e perplessità -, allora ci si getta totalmente in braccio a Dio, allora non si prendono più sul serio le proprie sofferenze, ma il patire di Dio nel mondo, allora si veglia con Cristo nel Getsemani, e io penso che questa è fede, questa è “metanoia” (conversione), e così si diventa un uomo, un cristiano” (lettera del 21 luglio 1944, dopo la notizia del fallito attentato al Führer, il giorno prima).
Tredici anni prima – viene detto sempre nella stessa lettera – Bonhoeffer aveva incontrato un parroco francese, un cattolico che lo aveva molto impressionato per la sua ricerca della santità nella vita. Pur rispondendogli che egli avrebbe voluto imparare a credere, pensò di poterlo fare tentando di vivere qualcosa come la santità. Fu un cammino che lo portò, tra l’altro, a scrivere Sequela. Ma ora, dal carcere, egli scopre più a fondo il valore della fede. In un contesto e dopo esperienze che faranno parlare di lui come teologo della secolarizzazione, Bonhoeffer confessa di avere imparato negli ultimi anni a conoscere e comprendere sempre più la profonda caratteristica terrena del Cristianesimo: “Il cristiano non è un homo religiosus, ma un uomo semplicemente, come Gesù. Non intendo la piatta e banale terrestrità degli illuminati, degli indaffarati, di chi fa i propri comodi o dei lascivi, ma quel profondo senso della vita su questa terra che è pieno di disciplina e nel quale è sempre presente la conoscenza della morte e della risurrezione” (ibid.).
Critica del Dio tappabuchi
Bonhoeffer non sovrappone artificialmente, in modo consolatorio o rivendicativo, Dio all’uomo, la religione alla vita, l’aldilà all’al di qua. Sono bel note le sue critiche alla nozione del Dio “tappabuchi” o deus ex machina, e alla religione come marchingegno per far intervenire Dio là dove l’uomo non arriva con i suoi mezzi a trovare soluzioni ai suoi problemi. Ma tutte queste critiche (insieme alle nozioni di “mondo maggiorenne” o del “vivere davanti a Dio senza Dio”…) non sono altro che la conseguenza dell’accettazione totale della vera religione, che è la fede vissuta esemplarmente da Gesù e dai cristiani “in lui”. E chi più di Gesù è stato critico contro ogni sotterfugio pseudoreligioso contro l’uomo? (pensiamo al “sabato”, al “tempio”…).
Così la fede diventa risposta dell’uomo alla presenza di Dio. Risposta attiva: col farsi prossimo alle sofferenze dei fratelli nell’umanità (pensiamo alle tragedie dei nostri giorni – basta ricordare l’Africa, l’America latina o l’ex Jugoslavia… – di fronte ai “divertissements” della politica), l’uomo veglia nel Getsemani, veglia ad assistere Dio inghiottito nell’abisso del peccato, della debolezza e della morte, accorre al Dio povero, vilipeso, senza tetto, senza cibo (cfr. poesia Cristiani e pagani). Il cristianesimo non accampa la superiorità della propria verità dogmatica, ma vive semplicemente l’avventura della fede in mezzo all’umanità, nel mondo e nella storia degli uomini: l’avventura di Gesù che continua nell’incarnazione, morte e resurrezione dei cristiani.