Dalla democrazia della rappresentanza alla democrazia della partecipazione
Scriveva Tommaso Fiore, coraggioso meridionalista e intellettuale pugliese, dopo vent’anni di Repubblica: “Il PCI e gli altri partiti, intendono avere circoli culturali propri, ognuno del proprio partito, e non capiscono nemmeno loro l’utilità che gli operai abbiano, quartiere per quartiere, biblioteche rionali a loro disposizione, perché si abituino a leggere, si formino. I partiti tutti quanti non vogliono formare uomini liberi, ma seguaci che, intelligentemente o no, diano il loro voto al partito. Questa è una gran prova della loro insipienza”.
Era un’analisi, quella di Fiore, spietata ma purtroppo vera e tutt’altro che inattuale anche oggi. Il più grande tradimento compiuto da politici, intellettuali, industriali, religiosi che hanno governato il nostro paese in questi cinquant’anni non è stato solo aver dissipato ricchezza, instaurato un sistema di corruttela e clientelismo istituzionale, sostenuto un collateralismo religioso capace di offrire giustificazioni e assoluzioni in nome dell’impegno profuso nell’opposizione all’ideologia comunista, costretto moltitudini di famiglie a cercare la sopravvivenza nell’emigrazione coatta, lasciare inalterato, e talvolta giustificato, il sistema delle disuguaglianze, quanto l’aver deliberatamente scelto di non favorire in alcun modo lo sviluppo di una comunità civile in Italia.
Si pensi che ancora negli anni ’50 i principi costituzionali risultavano in buona parte inapplicati e inapplicabili, i testi di storia delle nostre scuole si fermavano alla I guerra mondiale e nei programmi l’educazione civica è arrivata molto più tardi. Ma si è trattato di un arrivo presunto poiché il senso di questa disciplina, costitutiva dell’insegnamento tutto, è svuotato nei fatti.
Si può affermare oggi, senza possibilità alcuna di smentita, che anche per le nuove generazioni non è dedicata alcuna attenzione per la formazione alla cittadinanza, prerequisito prioritario perché si formi una comunità civile consapevole. Ed è proprio nell’assenza di una comunità civile che trovano spazio, ascolto e credibilità i saltimbanchi della politica e della immoralità (Sgarbi) e gli strateghi del consenso elettorale televisivo (Berlusconi).
La comunità civile non è realtà che si costituisca siglando un patto costituzionale o con una generica concessione. Per essa vale il principio dei fenomeni della lunga durata che comprendono lenti sviluppi, progressive sedimentazioni di valori, complessi itinerari per una condivisione di principi. Ciò avviene innanzitutto attraverso una corretta politica del rapporto con la propria memoria superando tutte le tentazioni all’oblio o alla parzialità.
Le mancate sanzioni contro gli aguzzini fascisti e i funzionari dello Stato (prefetti, questori, magistrati) che offrirono alla dittatura servizi e totale ubbidienza ad ordini vergognosi non furono un elemento di crescita e maturazione per gli italiani. Il loro reinserimento nel corpo della pubblica amministrazione repubblicana non contribuì certo alla formazione di una comunità civile responsabile e autonoma.
Ma anche oggi certo revisionismo e negazionismo nostrano, guidato da pericolosi intellettuali come Sergio Romano o Vittorio Messori, disposti a negare la ferocia del franchismo o ad accordare benemerenze al sanguinario impegno italiano nella guerra di Spagna, non contribuiscono a maturare quell’indispensabile coscienza comune indispensabile per l’identità di una comunità civile. Questa comunità non è mai un’astrazione ma è resa viva da esseri umani, coscienti e non soldati, non schiavi ma cittadini, non sudditi ma detentori di diritti inalienabili, diritti e non concessioni. E il primo diritto che emerge in quest’ora incerta è quello che impone il passaggio da un potere monolitico e centralizzato a un potere frantumato e diffuso.
Una non indolore trasformazione dalla innocua democrazia della rappresentanza a quella difficile della partecipazione. Il futuro della comunità civile è nella distribuzione capillare del potere, nella decentralizzazione delle decisioni, nell’autodeterminazione e nel ritiro delle deleghe. Il passaggio dalle monarchie assolute alla democrazia reale non è ancora compiuto, la tentazione delle dittature televisive o del sondaggio è incombente. Così l’idolo della produzione-consumo e la massificazione conseguente rischia di vanificare la promessa di una comunità civile ad opzioni multiple, dove ciò che è diverso non debba essere bandito e cancellato, dove la guerra appaia come impossibile scelta, dove i generali siano mandati in pensione e tutte le caserme sbarrate. Poiché la comunità civile è l’esatto opposto di quella militare, essa sostituisce all’etica della certezza (acritica e cieca) l’etica della responsabilità (cosciente e autonoma).
Ma la comunità civile è anche al di là delle rappresentanze ristrette, delle caste dei gruppi dirigenti. Essa sarà quando non saranno i governi ma i popoli a orientare la storia: solo allora, fallita la Banca Mondiale e sepolta la Nato, pace e giustizia potranno realizzarsi.