Cultura e culture nell’epoca della globalizzazione

di Bertin Mario

Processo contraddittorio
Da un po’ di tempo a questa parte, per designare il fenomeno della universalizzazione della storia (che ha peraltro le sue lontane radici nella Rivoluzione francese), della interdipendenza degli Stati e delle economie, della liberalizzazione degli scambi, si ricorre al termine di “globalizzazione”. La realtà che il termine vuole indicare non è del tutto nuova e mantiene soprattutto un ampio margine di ambiguità. Con esso viene infatti definito non un fenomeno dai contorni precisi, ma l’esito mutevole di un processo di deregolamentazione economica e finanziaria, di sviluppo delle tecnologie dei trasporti e della comunicazione, di omologazione dei consumi, che conduce al declino delle culture nazionali (degli Stati-nazione costituitisi nell’epoca moderna). Questo movimento, anche se appare irresistibile e irreversibile, come abbiamo detto, presenta tuttavia aspetti contraddittori: se incrementa la circolazione dei beni e delle persone, eclissa al medesimo tempo i centri di produzione dei valori; se, in una certa misura e in certi ambiti, favorisce l’omogeneizzazione dei comportamenti, si accompagna anche alla frantumazione delle identità culturali attraverso le derive etniche e religiose, e cioè attraverso un nuovo, discutibile ritorno alle radici. Di fronte a tali ambiguità, la domanda che ci facciamo è se esista, o addirittura se possa esistere, una cultura globale e, comunque, quali siano gli effetti indotti dai processi di globalizzazione economica sui modelli culturali da essi investiti. Prima di affrontare la questione (sulla quale peraltro siamo in grado di offrire soltanto limitati spunti di riflessione), si rendono però necessarie alcune precisazioni di ordine terminologico.

Precisazione dei termini: cultura
Innanzitutto, parlando di culture intendiamo riferirci a quei complessi di principi e di valori che, essendo largamente condivisi, hanno il potere di dar vita a comportamenti collettivi omogenei capaci di distinguere una comunità da un’altra. Una cultura, pertanto, è ciò che unisce tra loro i soggetti che in essa si riconoscono e che contemporaneamente li distingue da tutti gli altri. Una cultura dunque può essere considerata da un duplice punto di vista: da quello del suo potere coagulante oppure da quello del suo potere discriminante.

Globale
Sempre sotto l’aspetto terminologico, bisogna poi distinguere tra concetti che nel parlare comune vengono usati indistintamente, ma che indicano realtà tra loro assai differenti. Bisogna distinguere in particolare i termini globalizzazione, mondializzazione e internazionalizzazione. Mentre infatti la parola internazionalizzazione sottolinea la crescita dei rapporti e degli scambi tra gli Stati (internazionali), con la parola globalizzazione viene implicato anche un certo grado di integrazione funzionale fra attività diverse, che prende avvio da un’unica strategia e che produce una realtà economica, sociale o culturale nuova. Per effetto di tale azione, i diversi tendono a fondersi e a cancellarsi in una sintesi inedita.

Mondiale
Un’ultima distinzione da adottare è quella tra i termini “globale” e “mondiale”. Il primo andrebbe impiegato preferibilmente con riferimento ai fenomeni economici e tecnologici, mentre l’idea di mondializzazione andrebbe riservata allo specifico della cultura. Infatti la categoria “mondo” implica una visione universale, un universo simbolico specifico, anche se in grado di convivere con altre visioni del mondo e di stabilire con esse gerarchie, conflitti, accomodamenti. Una cultura mondializzata non comporta di per sé l’uniformità di tutti. Produce invece dei modelli che fondano una nuova maniera di stare al mondo (“modernità-mondo”), nuovi valori e nuove legittimazioni che pretenderebbero di estendersi a tutti, ma che non è detto ci riescano. Esempio tipico sono le religioni, le quali, prefiggendosi la liberazione dell’uomo in quanto tale dai limiti della storia, sono per natura loro universalistiche. Non c’è religione che potenzialmente non si rivolga all’intera umanità. In nessun contesto come in quello delle religioni, i valori costitutivi di una comunità mostrano in modo così radicale la loro forza unificante e il loro potere di identificazione, anche attraverso la separazione da quelli che non li condividono (gli “infedeli”).

L’uomo della globalizzazione: ognuno per sé
Non vi è dubbio che dal nuovo intreccio che lega insieme le diverse economie in un mercato mondiale competitivo derivino conseguenze importanti sui comportamenti degli individui e delle comunità, capaci di esercitare la loro influenza in tutti i campi della loro vita. Ciò appare inevitabile. Ma come avviene? Vediamo alcuni dei modi in cui tale influenza si manifesta. È sotto gli occhi di tutti che la facilità degli scambi e degli spostamenti ha reso possibile e agevole la conoscenza di prodotti e di contesti culturali differenti dai propri, attraverso la diffusione su scala mondiale di particolarità legate a tradizioni nazionali e locali. Ciò ha avuto effetti di grande rilievo. Si pensi al superamento del colonialismo culturale (almeno nelle sue forme più radicali), alla nascita di letterature e di attività artistiche post-coloniali (con l’affermarsi talvolta di nuove e più subdole forme di colonialismo), all’emergere di un nuovo sincretismo culturale che ha attraversato tutta l’arte e la cultura di questo secolo (citiamo, a puro titolo di esempio, il cubismo, l’astrattismo, la letteratura “meticcia”), e via elencando.

Il mondo, destinatario dell’attività culturale
Da questo fenomeno è discesa una maniera nuova di fare attività culturale. Adesso il prodotto letterario e artistico è per lo più concepito e destinato fin dal suo nascere a un mercato mondiale e supera i tradizionali microcosmi in cui tradizionalmente si collocava e ai quali faceva riferimento. Destinatario dell’opera letteraria, filosofica, scientifica, artistica non è più una comunità individuabile, ma il mondo. Questo significa due cose: che la stessa comunità viene cambiata dal prodotto culturale, nel momento in cui lo consuma, e che l’unica legge che presiede all’attività culturale è la legge del campo specifico. Il prodotto culturale non si prefigge più di soddisfare una domanda, ma di crearla. Creando la domanda, dà vita a un uomo diverso. Cambia insomma radicalmente il legame che unisce la produzione culturale alla realtà sociale. L’intellettuale, lo scienziato, l’artista si sentono “mandatari dell’universale”. Con la vocazione a fondare un nuovo internazionalismo, danno vita anche a un nuovo particolarismo.

L’uomo globale, mobile, frantumato
L’uomo, soprattutto quello che direttamente opera in contesti collegati con i processi di globalizzazione, è inoltre un uomo mobile. È un uomo che deve tenere conto di un quadro di fattori transnazionali, che oltrepassano cioè la sua società e che sono pertanto fuori della sua cultura originaria. È un uomo costretto a muoversi avanti e indietro tra differenti culture e a tener conto di diversi codici etici, di comportamento, linguistici… L’uomo della globalizzazione è un uomo allo stesso tempo frantumato perché i vari mondi in cui entra ed esce (quello delle persone comuni, quello della tecnologia, quello della finanza…) sono collegati da relazioni non prevedibili in quanto soggette, come ha messo in luce Featherstone, a restrizioni e stimoli intrinseci (politici, informativi, ambientali). Frantumato ancora perché costretto a rinunciare ad un suo centro di elaborazione comportamentale. Jacques Attali ha parlato in proposito di nuove figure sociali, di una nuova classe, che egli chiama “superclasse” (Liberal, n. 16), che sconfiggerà le vecchie élites. Sono ceti caratterizzati dalla mobilità, “possessori o creatori di rendite informatiche, capaci di disporre, anche per un breve tempo, di una conoscenza o di un know how unico (…). Essi non vogliono dirigere gli affari pubblici (la celebrità politica è per loro una maledizione). Amano creare, divertirsi, muoversi; non si preoccupano di lasciare ricchezze o potere ai loro figli: ognuno per sé”. L’omologazione. Consumare tutti la stessa cosa, ma ciascuno per conto suo. La dislocazione e la frammentazione della produzione, la diffusione mondiale della informazione in tempo reale contribuiscono al superamento delle culture locali, ma quello che prende il loro posto sono spesso sottoculture, gravitanti sui comportamenti e sui consumi, incuranti del passato e indifferenti ai contesti ambientali nei quali si calano. Questi nuovi fenomeni spiegano la caduta e l’abbandono, che si osservano un po’ dappertutto, dei valori tradizionali.

Il modello americano
Ad uscire definitivamente vincitore nel mondo è il modello di vita e di “progresso” dell’Occidente. O, più brutalmente, il modello di vita e di “progresso” americano. Esso deborda dal bacino dove originariamente si è sviluppato per affermarsi con le stesse caratteristiche di necessità ovunque, un po’ alla stregua di una nuova religione. Anche le vicende degli ex paesi socialisti sembrano testimoniare che al di sopra del capitalismo non è rimasto niente. E delle diverse forme di capitalismo ad affermarsi pare essere quella più individualista del liberismo. I modelli di successo e di benessere che muovono le società occidentali, quella americana in particolare, diventano i modelli buoni anche per il resto del mondo. La strada attraverso la quale i valori dell’Occidente vengono diffusi è la internazionalizzazione degli scambi commerciali. Esportando telefilm, Coca Cola, jeans… gli “occidentali” esportano i loro modelli di vita, la loro lingua (inglese), la loro cultura. Tutti devono consumare la stessa cosa sotto qualsiasi cielo, ma tutti la devono consumare per conto proprio. Ancora una volta, emerge la caratteristica di fondo dei processi di mondializzazione della cultura: al massimo della uniformità corrisponde il massimo della frammentazione.

Contraddizioni
Ma le antinomie non si fermano qui. Vediamone alcune altre:

  1. Si infrange il collegamento tra creatività e produzione culturale. Il “made in Italy” viene prodotto nel Sud Est asiatico o in Romania. Le campagne pubblicitarie diffuse in Europa vengono create in Giappone. Le mode culturali vengono importate da altri paesi, in primis dagli Stati Uniti: capita così che in Italia deve avere successo quello che lì ha avuto successo (l’80% dei film proiettati in Italia, per esempio, viene prodotto a Hollywood). La televisione diffonde interi programmi parlati in inglese. Tutto ciò induce uno sradicamento dell’individuo dalla sua propria storia e dal suo proprio passato.
  2. La universalizzazione cancella i riferimenti simbolici specifici. Cancella la funzione della memoria come archivio che influisce nella definizione del presente. I materiali utilizzati nel processo di mondializzazione vengono avulsi dal luogo e dal tempo che li ha prodotti. Così devitalizzati, essi sono destinati ad essere buoni in qualsiasi luogo e qualsiasi tempo. Il non luogo e il non tempo diventano un luogo e un tempo. Si pensi in architettura alle accozzaglie proposte dallo stile detto postmoderno, così diverse dal “simplegma” medievale. Caratteristica fondamentale della mondializzazione diventa invece la “mobilità” (si può spostare un tempio cinese e collocarlo nel cuore di Manhattan). Muore l’utopia come motore della storia e quindi muore la speranza che nasce da una visione ideale del mondo. La ragione è che dalle questioni dell’uomo viene escluso l’uomo.
  3. Il risultato della mondializzazione spesso comporta la creazione di prodotti e di comportamenti falsi perché avulsi dalla radice da cui sono a loro tempo emanati. Così possiamo vedere tedeschi che si improvvisano monaci buddisti, prodotti artigianali calabresi fatti a Singapore, paesaggi thailandesi che si confondono con quelli della Florida…
  4. Infine, la mondializzazione è centripeta, mentre la democrazia si fonda sul rispetto delle autonomie e quindi del decentramento (Ortiz). Il pericolo è che dal processo di mondializzazione vengano favorite forme autoritarie di potere e sistemi in cui frammentazione e diversità coincidono con la perdita di controllo del potere da parte dei cittadini.

È possibile una cultura globale?
È proprio il persistere, senza che se ne intraveda il declino, delle antinomie di cui abbiamo parlato (eterogeneo/omogeneo; frammentazione/unità), a rendere problematica la possibilità di una cultura globale. E a renderla soprattutto non auspicabile. Il mondo della globalizzazione ci appare, da una parte e per alcuni versi, omologato e, dall’altra, frantumato. Quali sono le radici di questa dicotomia? La mobilità, l’omologazione dei comportamenti e dei consumi, i vincoli dell’economia e della finanza spingono (costringono?) a mettere continuamente tra parentesi la cultura di appartenenza. Il sistema economico postulato dai processi di globalizzazione, e il suo successo, presenta infatti un elevatissimo livello di astrattezza, che non può non entrare in conflitto con la società reale. Se un sistema deve andar bene per tutti, se deve riguardare tutti, le particolarità di ciascuno dovranno essere cancellate. Più si amplia il processo di globalizzazione e più la società reale si trova sprovvista di strumenti per controllarne e governarne il corso.

Economia contro cultura
Questa situazione può avere come conseguenze: OL type=”a” class=”testo” > la perdita delle identità individuale e di gruppo accompagnate dalla necessità di reinventare una nuova identità compatibile e funzionale alla nuova situazione economica. Saremmo in presenza della “economizzazione” del mondo; o, in alternativa, l’affermarsi di una ideologia culturalista. Nella sostanza si tratta di due opposte letture dei processi di mondializzazione: globalizzazione intesa come fenomeno di astrazione economica oppure, all’opposto, come fenomeno culturale. Economia contro cultura.

La mondializzazione economica: resta la barba
In base alla prima interpretazione, la mondializzazione economica viene vista, tra l’altro, come causa di flussi migratori e di reti transnazionali che favoriscono la deculturazione, e quindi la perdita di identità, di un vasto numero di persone di intere popolazioni. Queste persone, o popolazioni, costrette a misurarsi con un contesto diverso da quello di origine (si pensi alla presenza africana in Europa), cercano di ritrovare la propria identità nel recupero delle loro appartenenze etniche e religiose e cioè con il riferimento a comportamenti che appaiono uguali a quelli delle loro comunità di origine, ma che sono in realtà completamente diversi. La ricomposizione etnica infatti si realizza prevalentemente a partire dai segni esteriori della religione perché la religione può fornire un codice quando la cultura è in crisi. Il fedele infatti può esibire dei segni (velo, barba, riti, ecc.) che sono le prove della sua appartenenza a una cultura. Ma la cultura nel nuovo contesto gli è negata. Essa si traduce in una invenzione altrettanto astratta quanto sono gli stessi processi di globalizzazione economica.

Culturalismo, un inutile Pantheon
Sul fronte opposto, molti hanno indicato nel multiculturalismo (o semplicemente culturalismo) la risposta adeguata al fenomeno della globalizzazione economica, perché propugna la coesistenza di più culture dentro un unico disegno di sviluppo economico. È il salad bowl di cui parlano gli americani, in contrapposizione al melting pot. L’insalatiera, dove ogni componente mantiene la sua separata identità, al posto del vaso della marmellata dove tutto si amalgama. Ma neppure questa pare essere la soluzione giusta. Tutte le culture infatti vuol dire nessuna cultura. Il multiculturalismo allora non è che un alibi. Nel suo nome le istituzioni economiche possono agire indisturbate a prescindere da qualsiasi presupposto culturale, fuori dal riferimento a qualsiasi quadro di valori. Il multiculturalismo altro non sarebbe che l’antico Pantheon, escogitato per far convivere in uno stesso posto tutte le religioni dell’impero senza disturbare il potere politico. Ancora una volta i meccanismi economici e politici verrebbero spogliati dei loro presupposti o riferimenti culturali. Anche l’ipotesi multiculturalista dunque appare fallimentare nel delineare un modello accettabile di rapporto tra economia e cultura. E allora? Allora forse, dovendo rifiutare l’alternativa tra culturalismo e astrazione economica, perché bisogna rifiutarsi di opporre economia e cultura, non resta che auspicare che la cultura (le culture) si riappropri(no) dell’economia. Si tratta insomma, come hanno detto alcuni (Bayart), di “reinventare le differenze”, pur mantenendo saldi i valori universali della democrazia.

Reinventare le differenze
Come ritrovare un ruolo della cultura nella guida dello sviluppo? Io credo che si possa ipotizzare, come sostiene Hannerz, una globalizzazione della cultura che consista più nella organizzazione delle diversità che nella riproduzione delle uniformità. Bisogna insomma riconoscere l’esistenza di una molteplicità di isole culturali e la necessità di gettare dei ponti che le colleghino, che le “organizzino”. Con Hannerz si può prevedere la possibilità di una cultura mondiale originata dalla crescente interconnessione tra culture locali e dallo sviluppo di culture nuove “senza una chiara base in qualche territorio”. Più che di una cultura globale (che presupporrebbe peraltro una quanto mai improbabile società globale) possiamo forse parlare con Featherstone di processi di integrazione e di disintegrazione culturale che possono verificarsi anche a livello transnazionale e transociale. Non è infrequente che questi processi ottengano una parte di autonomia, facendo così emergere “terze culture”, che diventano a loro volta in se stesse canali per differenti flussi culturali.

Forse un’anti-Babele
Non dunque una cultura globale unificata, ma piuttosto culture globali al plurale, cioè culture orientate oltre le frontiere tradizionali (nazione, gruppo etnico…). Questo processo di globalizzazione che punta alla interrelazione culturale globale, può anche essere portatore di un ecumenismo globale, definito come “una zona di persistenti interazioni e scambi di cultura” (Featherstone e Kopytrott). La globalizzazione paradossalmente può rappresentare allora l’anti-Babele e far emergere una cultura dell’alterità e della differenza, del dialogo e di una comunicazione che non neghi la specificità e il linguaggio dell’altro. Dio disperde l’umanità “che aveva una sola lingua e le stesse parole” (Genesi 11,1). È come dire che il disegno divino sull’uomo esclude sia l’uniformizzazione che la separatezza senza comunicazione. Inaspettatamente il movimento che portava alla omologazione, alla unicità che impoverisce, all’unica lingua (l’esperanto senza storia), può invece condurre, contrariamente alle iniziali previsioni, alla pluralità, alla comprensione tra diversi, attraverso la capacità di capire il linguaggio degli altri. È il messaggio della Pentecoste, quando “uomini di tutte le nazioni che sono sotto il cielo” sentivano parlare gli apostoli “ciascuno nella propria lingua”, quando cioè la comprensione avviene nella molteplicità, non nella unicità, delle lingue.