Coniugare culture diverse nel dialogo delle persone
Dopo aver rilevato alcune caratteristiche di fondo della cultura latino-americana e di quella europeo-occidentale (cfr. Madrugada n. 11), vorrei qui proporre alcune riflessioni derivanti da un’esperienza concreta, vissuta con italiani (ed europei in genere, anche canadesi e nordamericani) in ambiente brasiliano, in un contesto di cooperazione ecclesiale e umano-promozionale. Torno così sul tema della interculturalità con delle osservazioni per così dire “embricate” tra loro: si intrecciano, si sovrappongono e si ripetono parzialmente, a testimonianza della semplicità e inesauribilità di un tema che non si è mai finito di esplorare.
Umanesimo della ragione, umanesimo del cuore
Nel clima naturale di dialogo che si instaurava con i brasiliani e tra noi italiani (europei), la prima cosa che constatavamo con gratitudine era che in quel nuovo ambiente, così diverso per tanti aspetti da quello che avevamo lasciato, ci sentivamo ugualmente a casa nostra. Non intendo certo sottovalutare la lunga fatica (non ha mai fine) della lenta gestazione e rigenerazione (o “acculturazione”) che ci attendeva in mezzo ai brasiliani. Voglio solo dire che essi non ci facevano mai sentire stranieri: eravamo accolti come qualcuno di loro, spontaneamente “adottati”.
Il nostro umanesimo della ragione faceva la scoperta dell’umanesimo del cuore. Scoperta tanto più sorprendente in quanto, sul piano della convivenza, era il loro umanesimo a rivelarsi più capace di universalità. Le nostre idee, infatti, anche se chiare e logicamente valide (lo si vedeva nel discutere dei vari problemi) venivano presentate dentro un modello culturale particolare. Era davanti agli “altri-da-noi” che ne prendevamo coscienza: proponevamo concetti e valori universali, ma col nostro modo di sentire e di esprimerci imponevamo, senza volerlo, una visione particolare della realtà, strutturata sul valore logico-obiettivo del concetto. Certo, se si vuole intendere è necessario fare uso dei concetti; ma è appunto tale uso che era diverso in noi e nei brasiliani. Noi privilegiavamo le idee; loro, le emozioni e i sentimenti che accompagnano le idee e rivelano la persona che si cela dietro di esse. Si potrebbe dire che, mentre per noi contano le persone in quanto pensanti, per i brasiliani contano le persone “in carne e ossa”, per dirla con Unamuno.
Un’anima… più anime
Di fronte a persone che, sia pure attraverso dominazioni e oppressioni di vario genere, avevano storicamente conosciuto un processo di incrocio/fusione razziale e culturale, noi europei ci scoprivamo… inesorabilmente europei: etnocentrici. Avevamo un’anima sola, e… ben squadrata, di fronte a persone che disponevano, per così dire, di più anime, senza identificarsi con nessuna di esse: gente “né indigena, né africana, né europea… popolo, se non migliore, almeno più umano degli altri, perché fatto delle più varie umanità” (Darcy Ribeiro, Il popolo latino-americano, in Concilium 6/1990, p. 32).
L’instabilità o incostanza o ambiguità che ci veniva spontaneo di accusare in loro era anche, e prima di tutto, un giocare su registri diversi di comunicazione, in assenza del dominio di una tradizione monoculturale. Certo, avere un’anima sola, identificata per giunta con la ragione logico-pratica, permette di agire nell’immediato in maniera più risoluta ed efficace quando si tratta di realizzare “cose”, di affrontare “problemi”… Ma al nostro culto della logica obiettiva e dell’efficienza individuale rispondeva, da parte brasiliana, il senso dell’ospitalità e della gratuità, del convivere in amicizia. Due testimoni europei (catalani) della latinoamericanità – Pedro Casaldáliga e José Maria Vigil – hanno dedicato alcune pagine semplici e penetranti a “ospitalità e gratuità” (insieme ad altre sui vari aspetti della cultura del popolo latinoamericano) in un libro di imminente pubblicazione in traduzione italiana presso Cittadelle Editrice di Assisi: Espiritualidad de la liberacion.
Parola: oggetto… emozione
Strettamente collegata a quanto detto prima era, dunque, la scoperta dello scarto che si verifica nell’uso della medesima lingua: il portoghese parlato in Brasile. Nel comunicare tra noi (italiani, europei) ci accorgevamo dell’esistenza di un comune denominatore espressivo, per cui le parole assumevano un’accezione e valenza univoca, pur nelle particolarità delle diverse tradizioni regionali e nazionali. Con i brasiliani invece, anche quando dicevamo le stesse cose, servendoci delle stesse parole, le nostre esprimevano in realtà qualcosa di differente. Non voglio dire, ovviamente, che con i brasiliani fosse difficile intendersi o, al contrario, che ci si accordasse automaticamente tra italiani o europei in genere. Voglio dire semplicemente che tra noi si avvertiva immediatamente la presenza di un comune modo di vedere le cose, in modo da determinare logicamente dove c’era accordo e dove no, a prescindere dalle diverse sensibilità. Nel comunicare invece con i brasiliani il discorso comportava sempre accenti, sottolineature, risonanze (enfatizzazioni o attenuazioni), sottintesi, clima emotivo che alla fine inducevano a dire: “sì, ma…”. C’era qualcosa di noi che non riuscivamo ad esprimere come desideravamo, e questo non solo per l’incapacità di manovrare spontaneamente la lingua; e c’era in essi, nel loro espimersi, qualcosa che non riuscivamo a capire fino in fondo. Una cosa capivamo bene: dialogare veramente con persone di cultura diversa comportava al tempo stesso un arricchimento dei punti di vista e dei modi di esprimere verità comuni e un impoverimento dei nostri particolari moduli espressivi. Per comunicare bisognava rinunciare a qualcosa di sottilmente ed esclusivamente nostro, confuso spesso con la nostra sacrosanta identità. Quando ci si apre ad “altri”, la propria identità si approfondisce ed irrobustisce diventando più sobria e spoglia, più autentica senza compiacimenti.
Il nostro parlare era per lo più rivolto a oggetti (cose, idee, emozioni, problemi, azioni…) analizzati e valutati criticamente, in funzione di un esprimersi, organizzare, agire logicamente ordinato. Il loro comunicare partiva invece da un nucleo emotivo-intuitivo e vitale-personale da cui sembrava impossibilie prendere distacco per parlarne “oggettivamente”. In termini più concreti, i nostri oggetti da trattare e problemi da risolvere per i brasiliani si traducevano in realtà vissute, in vivancias. Qui come sempre, però, non bisogna cadere nella trappola delle facili quanto fasulle contrapposizioni. In clima di amicizia e di lavoro comune, quante volte abbiamo dovuto ammirare la finezza dei loro ragionamenti, svolti con semplicità sulla bse di intuizioni penetranti che giungevano subito al nocciolo delle questioni! E quante volte, d’altra parte, i brasiliani riconoscevano e apprezzavano vivamente la profondità e costanza dei nostri sentimenti, soprattutto quando si trattava di comprendere e perdonare, vincendo suscettibilità e scontrosità!
Moderno e primitivo
A voler usare il linguaggio degli antropologi, si potrebbe parlare del nostro logocentrismo e del loro partecipazionismo; oppure di moderno e di primitivo (“primitivo” in senso positivo: non qualcosa da superare col “progresso”, ma come fondamento d’ogni costruzione, matrice d’ogni crescita umana). Voglio qui citare un libro la cui lettura mi ha aiutato a penetrare e chiarire tanti aspetti dell’esperienza avuta in Brasile: Il pensiero dei primitivi. Preludio a un’antropologia, di Remo Cantoni, Il Saggiatore, Mondadori, Milano 1968. Sono convinto che in questa coppia di termini, “moderno-primitivo”, e nella loro opportuna integrazione, si giochi gran parte della possibilità e fecondità di dialogo tra cultura occidentale e culture indie e africane: se la “primitività” ha urgente bisogno di scoprire la sua capacità di “modernità”, non è meno indispensabile che quest’ultima riscopra la propria “primitività” (cfr., ad esempio, C.R.Aldrich, Mente primitiva e civiltà moderna, Einaudi, Torino 1949). Imprestando i termini della psicologia junghiana, potremmo anche dire che i brasiliani erano più ricchi di anima, noi di animus (sentimento, fantasia, passione – logica, astrazione, fermezza). Uno studioso brasiliano, Pedro Finkler, psicologo, in un libro di imminente pubblicazione in traduzione italiana presso Edizioni Messaggero di Padova (tit. orig. Ao encontro do Senhor, Ed.Vozes, Petropolis) dedica un capitolo a questa coppia “anima – animus” per fare un confronto tra mentalità scientifica occidentale e mentalità contemplativa orientale. Si possono capire certe impressioni, che non devono diventare stereotipi che danno origine a malintesi e mistificazioni; si sentiva dire, per esempio, che tutto il mondo espressivo-relazionale dei brasiliani aveva una connotazione di “femminilità” e di “infantilità”: “sono come bambini”, dicevamo noi; “siete troppo duri, fino alla brutalità”, ci dicevano loro.
Organizzazione e tenerezza
Quello che ho chiamato “umanesimo della ragione” e “umanesimo del cuore” potrebbe anche tradursi con altre categorie, sempre da intendere non in modo esclusivo e contrappositivo, ma dialettico-integrativo. Così, per esempio, mentre noi europei privilegiavamo della realtà l’aspetto profano (o laico), nel senso di qualcosa che interpella direttamente la nostra coscienza suscitando responsabilità, professionalità, serietà metodica per far sì che la realtà stessa serva all’uomo, “renda”; i brasiliani avevano invece connaturata l’intuizione del sacro, nel senso di vedere nella realtà qualcosa di immediato e gratuito, vivente e “numinoso” (= segno di una volontà superiore), qualcosa che, prima d’ogni legittima e doverosa azione di controllo-dominio tecnico-uso, chiede e suscita accoglienza e convivenza, ringraziamento, invocazione (o… scongiuro, trattandosi di pericolo). In termini più semplici e sintetici, al nostro senso attivo-pratico (trasformare il mondo!) rispondeva il loro spirito naturalmente contemplativo (cfr. ancora P.Casaldaliga-J.M.Vigil, o.c., pagine sotto il titolo In contemplazione). Così, se per noi la realtà si presenta come una serie di problemi da risolvere in vista di un’efficiente organizzazione della società, con alla base i diritti dei singoli (democrazia liberale), per i brasiliani (latinoamericani in genere) la realtà è innanzitutto partecipazione a una vita comune, e se di democrazia si parla si tratterà sempre di una democrazia sociale. In tal senso è interessante notare come la parola solidarietà abbia per i latinoamericani risonanze immediate e istintive, prima di ogni ulteriore programmazione e istituzionalizzazione: una poetessa latinoamericana, Gioconda Belli, l’ha definita la “tenerezza dei popoli” (cfr. Espiritualidad de la liberacion, Solidariedad).