Confezioni raziocinanti e… scampoli del viandante. Alle radici della individualità
“Ogni essere grida in silenzio
per essere letto altrimenti.
Occorre non essere sordi
a queste grida”.
[Simone Weil]
Pugni chiusi
Tento a fatica di concentrarmi nello studio nell’affollata aula dell’università e vedo entrare Simonetta dalla porta. Ha il viso teso, gli occhi segnati ed è visibilmente nervosa. Mi invita ad uscire con lei in corridoio. Gli occhi le si riempiono di lacrime e le parole faticano ad uscire, strette fra i denti digrignati dalla rabbia e dal non senso. “Il mio migliore amico si è impiccato un anno fa ad una trave in soffitta; ieri la madre ha trovato il fratello minore, ventenne, l’unico figlio rimastole, appeso alla stessa trave”.
Mi prende un nodo d’ansia e di rabbia allo stomaco, il respiro mi si fa corto, rimango freddo e ammutolito, con i pugni stretti. La mia razionalità rimane chiusa, intrappolata, quasi sospesa al limite di un baratro, in un continuo protendersi verso una vana spiegazione, giustificazione. Non sono riuscito allora e tantomeno riesco a darmela adesso.
Abitare il dolore
Non riesco ad accettare di non riuscire a darmi una risposta razionale alla morte, alla sofferenza; mi sento quasi precipitare nel vuoto del non senso, oppresso da una realtà che non riesco ad affrontare, a vivere, perché inevitabilmente intrisa di dolore e di contraddizioni.
Eppure, paradossalmente, da quando le vicende personali mi hanno in un certo senso vincolato alla realtà, impedendo ogni mia possibilità di fuga negli idealismi più astratti di chiusura nell’intimismo più infantile, sto sperimentando la vita, riesco a percepirla nelle sue verità.
Attimi di nuda esistenza che nella loro cruda verità risvegliano i desideri più reconditi e autentici, mi permettono di attingere alle sorgenti della vita nella sua assolutezza, mi aprono all’incontro con il misterioso volto del Vivente.
Al di fuori di ogni mia previsione o progetto, da quando ho scelto di abitare le sofferenze e le contraddizioni che accompagnano quotidianità e storia, che sempre stanno al fondo di noi stessi, di me stesso, un nuovo orizzonte si è inarcato ai miei occhi: la vita.
Intuisco, anche se non riesco ad esprimerlo concettualmente, che “solo quando c’è dolore inizia la ricerca” (P. Sloterdijk), solo quando si vive l’esilio della solitudine si apre la possibilità di un approfondimento dell’umano, vengono decomprimendosi quegli spazi interiori che liberano le latenze sopite di umanità essenziale.
Perdere ogni certezza
Ad una ad una sto perdendo tutte quelle certezze che fino ad ora mi hanno orientato nella vita, mi hanno permesso di vivere, anzi di sopravvivere; perché se da una parte mi hanno sostenuto (ma non erano le mie gambe!), dall’altra mi hanno impedito di farmi intimo a me stesso, di acquisire autoconsapevolezza, di assumere il peso di esistere.
Le certezze di quegli “affetti” che placano il vuoto della solitudine (il dono della solitudine), impedendo l’esperienza della pienezza che accompagna un cammino di liberazione che sempre muove dall’esilio, dal dolore.
Le norme morali che cristallizzano le energie vitali (aggressiva e sessuale) così interdette alla loro meta essenziale che è la gioia di esserci, premessa di una relazione autentica. Le convinzioni religiose che non hanno altro radicamento che sia quello delle abitudini, che bloccano al suo nascere ogni pensiero dell’ulteriorità. Le prospettive escatologiche che estraniano dalla ricchezza del presente, del mio qui ed ora. Le certezze ideologiche che nel loro tentativo di abbracciare la totalità rasentano la follia misconoscendo quell’incredibile realtà che è la persona umana nella sua assolutezza e contingenza, universalità e singolarità, perennità e storicità. Le certezze del risultato raggiunto che innescano quel processo di identificazione e dipendenza dall’esterno che impedisce di rivolgere lo sguardo alle radici della mia individualità.
L’esperienza dello spaesamento
Ho perso le certezze e mi sembra di vivere quella che U. Galimberti definisce l’esperienza dello spaesamento del viandante. “Il viandante è un uomo non garantito, obbligato, per sopravvivere, a elaborare continuamente la diversità dell’esperienza… L’etica del viandante è sviluppo fortissimo della propria individualità. Il se stesso che il viandante fa emergere non è allora un se stesso rigido, ma continuamente loquente con la popolazione sempre nuova che incontra”.
Perdo le certezze e mi sento quasi desituato; ma nell’incertezza del momento mi scopro viandante in cammino, dotato di quell’unico ma essenziale bagaglio che è la faticosa disponibilità ad esporsi all’insolito.
Io è un Altro
“In momenti simili sperimentiamo la nostra alterità non soltanto nei confronti delle altre persone da cui cominciamo a distinguerci, ma anche nei confronti di noi stessi. L’io è un altro, non solo ora e casualmente, ma sempre e in maniera essenziale” (Peter Shellenbaum).
Scendere al centro di me stesso, nei più riposti a volte oscuri interstizi dell’anima per dilatare gli orizzonti ed accogliere nuove prospettive di vita e di senso. Accedere e sostare accanto alla mia essenza di uomo, scoprire la necessità di divenire in atto ciò a cui sono destinato in partenza, in un tendere verso una meta, un fine che è tutto interiore. Un fine che non ci è mai dato di possedere definitivamente ma solo di realizzare, di attualizzare parzialmente. Parzialità e incompiutezza che sono l’impulso della ricerca e che non portano all’ansia e all’angoscia; perché vivere è sì un tendere, un continuo processo di umanizzazione, ma affonda le sue solide radici nella certezza (l’unica che mi è data) dell’esserci, nel mio essere mani, occhi, ventre: un corpo consapevole di esistere.
È questa la scoperta dell’alterità individuale, dell’Io che inizialmente irrigidito nelle sue certezze immobilizzanti si scopre improvvisamente altro e si ricompone nell’autenticità dinamica, mai statica e cristalizzata, dell’essere se stessi.
È un passaggio insolito in cui si annuncia una libertà diversa, che è realtà frontale di una identità che si solleva dalle passività dei dati e li ritesse in un disegno nuovo, all’interno del quale individua quei percorsi preferenziali che permettono alla persona di accostarsi alla propria essenza che si confonde con il mistero.
Ringrazio la vita per le sorprese, a volte dolorose, che mi riserva!
Rompendo gli specchi
È il momento di rompere gli specchi, di frantumare la mia immagine riflessa che mi fa dipendere dall’esterno (dal giudizio, approvazioni, rimproveri), di strappare il “vestitino della prima comunione” che immobilizza l’energia vitale e inchioda nell’inerzia delle abitudini, di riconoscere e rifiutare tutti quei modelli esterni che mi rendono uno qualsiasi. Tutto questo per riscoprire, accogliere e offrire il mio volto nella mia autentica nudità e verità.
Tutto questo per un nuovo inizio creativo, per una nuova nascita che come tutte è sempre accompagnata dal dolore, ma che è apertura al mistero della vita.