Come in uno specchio: carcere e civiltà

di Crimi Marco

Cubatura: afa
Provate a pensare ad uno spazio di due metri per uno e settanta, completamente nudo, spoglio, illuminato ed aerato da un’unica finestrella blindata ed abitato da quattro persone che non solo devono dormire a terra, ma, per evidenti ragioni dimensionali, sdraiarsi a turno, due per volta; il clima è quello equatoriale, il luogo è Manaus, nello specifico il più grande carcere dell’Amazzonia: 480 detenuti maschi ed una cinquantina di femmine, costretti, nel vero senso della parola, a vivere in celle come quella di cui sopra, nutriti con un pasto quotidiano a base di riso, fagioli e farofa ed, alla domenica, carne, cioè mezzo pollo per ogni cella (vale ad dire un ottavo a testa o l’intera porzione al più prepotente della cella…); servizi igienici inesistenti: una doccia che serve per tutti ed un vasto spiazzo sterrato per trascorre l’ora d’aria (meglio sarebbe dire “d’afa”).

Forse Voltaire…
È stato il mio secondo viaggio in Brasile: ho voluto visitare i carceri di quel paese non solo perché attiene alla mia professione, ma perché a volte penso che Voltaire avesse ragione nel dire che il carcere è lo specchio di una civiltà, con tutto quello che ne consegue. Credevo che avrei incontrato ostacoli di ogni genere, invece sono entrato nel “presidio” di Manaus senza neppure mostrare i documenti, senza dare spiegazioni di alcun tipo, accompagnato dalla mia compagna, senza subire perquisizioni (con in tasca soldi, sigarette ed un coltello), senza trafile burocratiche, semplicemente chiedendo ad un ispettore in borghese (ma con una grossa pistola nella cintola) di poter entrare (guardandomi bene dal dire che collaboro con Amnesty International o che sono avvocato, io e psichiatra la mia compagna): ci siamo limitati a qualificarci come coppia italiana cattolica, come ci era stato suggerito dal responsabile del Centro di Difesa dei Diritti dell’Uomo, padre Umberto, che è stato il nostro referente in Manaus.
Quell’ispettore ci ha fatti entrare e, quando ho fatto il gesto di estrarre il passaporto, mi ha robustamente fermato dicendo: “Se dico io che tu entri, tu entri!”, fornendoci con questo un’immediata misura dell’esercizio del potere. In Italia entrare in un carcere (da visitatori) è di una difficoltà estrema: occorrono documenti, autorizzazioni e trafile estenuanti; il tutto controllato e limitato sotto ogni profilo (tempo, numero di volte, frequenza ecc. Ecc.). Là siamo entrati in tempo reale, abbiamo trascorso all’interno del carcere un’intera mattinata, parlando con chi volevamo. Addirittura, a Santarem, siamo entrati nel carcere locale a poche ore di distanza da una rivolta dei reclusi (protestavano per le perenni carenze sanitarie ed alimentari e per la decisione del nuovo direttore di proibire di avere in cella il ventilatore, che, a quella latitudini, è più che indispensabile).

Restare in cella a pena scontata
Cosa significa tutto ciò? E cosa significa che in Brasile i detenuti siano nella stragrande maggioranza analfabeti, di ceto sociale bassissimo, privi di difensore, condannati per reati di bassa caratura (come furti o microspacci) e condannati spesso a pene di cui neppure conoscono l’entità, al punto che è comune che qualcuno resti in carcere per parecchi mesi a pena già scontata (dato che per essere scarcerati occorre l’ordine del giudice, che arriva solo se sollecitato e pertanto è necessaria l’assistenza di un legale o la conoscenza della propria posizione, con la capacità di far valere i propri diritti, cosa esclusa per chi non sa né leggere, né scrivere e grandemente limitata, in genere, per tutti)?
Esiste, per la verità, in tema di tutela dei diritti, la figura del difensore d’ufficio, rappresentata da un intero apparato statale specificamente predisposto, che risponde al nome di Defensoria Publica: sono avvocati stipendiati dallo stato, che dovrebbero garantire l’assistenza dei non abbienti; il risultato è disastroso: sulla carta il diritto è salvo, nella pratica “l’assistito” è ancora più solo che se fosse solo; questi “signori” ricattavano i propri assistiti, chiedendo una vera e propria parcella per attivarsi, diversamente…

Povero = criminale
Tutto questo ha un preciso significato in termini socio-politici ed il disegno è semplice e ben determinato: la giovane democrazia brasiliana, che altro non è che il vestito nuovo della vecchia dittatura, deve misurarsi col forte impatto sociale delle classi escluse che, seppure debolmente ed in maniera disorganica, rivendicano un proprio spazio vitale e un qualche diritto. La rispostale statale è perentoria: gli esclusi vanno emarginati, in attesa di annientarli, ed il miglior sistema sta nella loro criminalizzazione; per quelle classi non esiste possibilità di crescita; l’economia brasiliana non è poi dissimile dal nostro “nuovo” neoliberalismo e la forbice che rappresenta la divaricazione fra ricchi e poveri è sempre più aperta; il 10% della popolazione detiene il 90% della ricchezza; il ceto medio è compresso e spinto verso l’esclusione.
Ne risulta che le classi meno abbienti, tenute nell’ignoranza, nella miseria di certe favelas, minacciate e non tutelate nella salute, siano necessariamente il vivaio per la grande criminalità del narcotraffico e proprio in virtù di ciò sono genericamente e generalmente additate come classi criminali in toto, al punto da rendere comune l’equazione: povero = criminale. In Brasile non è previsto che un laureato venga incarcerato: per chi possiede questo titolo di studio è infatti previsto un regime speciale con cella singola con bagno, televisione e frigorifero (!). E di carceri così ne esiste uno in tutto il paese…
In carcere vanno e devono andare solo poveri e disoccupati, raramente grossi criminali, perché questi hanno mezzi per difendersi e per corrompere e se accade che vengano arrestati è solo un problema di giochi di potere ai vertici della criminalità organizzata.
Resto con Voltaire e dal carcere brasiliano vedo in trasparenza tutta l’organizzazione “sociale” di questo stato; dovremmo più spesso fare la stessa lettura anche nel nostro paese…