Ci sono punti d’appoggio? Per liberarci dalla violenza
Nel camposcuola di Macondo a Lorenzago di Cadore abbiamo parlato delle violenze strutturali che oggi torturano il mondo. Al termine, cercavamo di rispondere al Che fare?. Già molti oggi agiscono in silenzio a sostegno delle vittime, per la loro liberazione. Le analisi sono necessarie all’azione, ma se si fermano alla denuncia, rischiano di restare un grido indignato, ma sterile e disperato. Abbiamo bisogno di vedere punti d’appoggio nella realtà per tracciare linee d’impegno attivo e non solo deprecare la violenza.
La situazione di oggi è così varia e disorganica che vi si può vedere tutto. C’è chi accetta il mondo com’è, soddisfatto di qualche suo vantaggio particolare. Se siamo sensibili e attenti, vediamo molte cose negative. Ora qui cerchiamo il positivo.
C’è più bene che male
Nei termini più generali, richiamo una saggia osservazione di Gandhi: nonostante tutto, nel mondo c’è più bene che male. Se ci fosse più odio che amore ci saremmo già distrutti. Non è la violenza che fa la storia, ma la vita quotidiana di milioni e milioni di persone che collaborano nel difendere e promuovere la vita. Questo è il tessuto, la guerra e le violenze sono gli strappi (cfr. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi 1996, pp. 64-65). È l’intelligenza del proverbio che dice: “Fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce”.
Vediamo poi qualche punto più particolare. Qui li accenno in breve.
La donna si libera
La liberazione della donna dall’idea di una sua inferiorità naturale rispetto all’uomo e perciò dalle conseguenti disparità di diritti e opportunità, non è compiuta, procede diversamente nelle diverse culture, è anche contrastata e negata, ma è un fenomeno certo, inarrestabile, sicuramente positivo. Le qualità più caratteristiche delle donne, finora compresse, oppure strumentalizzate e sottomesse al dominio sessista maschile, potranno, una volta liberate, favorire una realizzazione più autentica dell’umanità in tutti. Questo fatto naturalmente non è scevro di alcuni estremismi, fino ad un sessismo rovesciato, ma nel suo significato di fondo è assolutamente positivo, perché è la liberazione da una violenza strutturale e culturale, dannosa anche per gli uomini maschi. È un reale punto d’appoggio per la crescita umana.
Le religioni dialogano tra loro
Le religioni comparse nella storia umana si sono a lungo ignorate o mal conosciute o addirittura condannate e combattute. Solo poche persone colte potevano superare la distanza dovuta al loro sviluppo geograficamente separato. Ciò ha prodotto gravi danni alle possibilità di pace tra i popoli umani: le idee assolutizzate, le verità armate sono tra le cause, spesso principali, delle guerre. Questo fatto ha danneggiato anche le religioni, molte delle quali, invece che libere proposte di senso della nostra esistenza e vie di salvezza dal male e dall’assurdo, sono apparse spesso come ideologie imposte in funzione di un determinato ordine sociale e politico o di una civiltà dominante. Tante volte l’espansione di una religione è avvenuta al seguito di un’espansione militare, imperiale, economica, coloniale, culturale. La tolleranza si è affermata (quando si è affermata) a scapito della fiducia nell’accesso ad una verità che salva, ed è stata per lo più scettica e relativista.
Le grandi religioni, custodi di quella fiducia e di messaggi di verità, sono apparse a molti (eccetto poche menti più illuminate) incompatibili ed avverse, fino all’odio teologico, e tutte insieme estranee alla ragione.
Uno dei fatti più positivi del nostro secolo è che le religioni si sono avvicinate. Anche per necessità, ma non solo per questo. Le culture secolarizzate, prive di un respiro spirituale che sappia trascendere i poteri di fatto, impostesi quasi dappertutto al seguito delle economie capitalistiche dominanti (che non perseguitano le religioni perché cercano di comprarle e corromperle), hanno spinto le grandi religioni, costrette in difesa, a cercare insieme quel nucleo essenziale che potevano avere in comune, restando ciascuna fedele alla propria ispirazione, per difendere l’esistenza umana dall’inaridimento materialista ed economicista.
Quel dialogo si è rivelato non facile, per molte ragioni, però si è stabilito, lentamente e con fasi alterne, ma con una sostanziale continuità. Nella teologia cristiana si è abbandonata quell’idea esclusivista della verità che regnava fino a pochi decenni fa. Alcune religioni sono più disposte al dialogo, per la loro interna struttura teorica e spirituale (per esempio induismo e buddhismo), altre fanno maggiore fatica. Ma oggi sarebbe irresponsabile negare la possibilità, l’importanza, la necessità del dialogo e della collaborazione tra le religioni per la pace, la giustizia, la salvaguardia della natura.
È ben vero che ci sono fondamentalismi, integralismi, esclusivismi nelle religioni tradizionali; che sorgono sette fanatiche, totalitarie e distruttive, spesso foraggiate ed usate da chi ha interesse politico ed economico a diffondere evasione religiosa e rassegnazione alle violenze strutturali. Ma il positivo c’è, vale più del negativo e permette di sperare, dunque di agire. Ha visto bene Hans Kìüng, che dice: “Non c’è pace tra le nazioni senza pace tra le religioni. Non c’è pace tra le religioni senza dialogo tra le religioni”. E questo dialogo è un fatto.
C’è una nuova coscienza
della violenza
Si può sostenere che la violenza sia cresciuta: mai fu così strutturata, scientifica e vasta come oggi. Eppure, in questa età della violenza, è cresciuta in controtendenza una nuova consapevolezza che condanna e rifiuta la violenza. Specialmente negli ultimi due decenni, dopo il culmine della minaccia atomica e il crollo dei tentativi violenti di realizzare la giustizia sociale, declina la fiducia nella violenza risolutiva, nella spallata rivoluzionaria che rinnova il mondo. Attenti, però: rifiutare la logica della violenza senza avere alternative è nobile ma disperante e paralizzante. L’interessante è che cresce anche la ricerca e la cultura della nonviolenza, che va oltre la condanna morale, è una attiva strategia di lotta per la giustizia con le armi della giustizia, ha già un buon corredo di esperienze storiche. Dicendo che cresce la cultura nonviolenta non penso a grandi numeri di adepti, ma ad un approfondimento teorico e pratico che, sui tempi lunghi, darà nuovi frutti storici.
Ma anche nella sensibilità comune e diffusa qualcosa cambia: la guerra non è più glorificata come pochi decenni or sono, neppure dagli statisti; quando la si giustifica si ricorre ad argomenti (sebbene pretestuosi) di necessità, non di ragione, più negativi che positivi. L’obiezione di coscienza, sebbene ancora disconosciuta in molti paesi, ha avuto uno sviluppo enorme. La Carta dell’Onu vieta la guerra, la quale viene ancora praticata per la debolezza di quella istituzione (sopraffatta ieri dalle superpotenze e oggi dall’unica rimasta, gli Usa), ma il divieto resta e la cattiva coscienza si fa sentire. Avvengono guerre etniche e faide di potere, ma gli stati sempre meno possono esercitare il diritto di guerra. Il nostro secolo di sangue termina migliore dei precedenti perché la guerra è diventata più oscena che mai.
Le politiche di dominio, tutt’altro che diminuite, si servono del colonialismo economico e culturale e solo in via sussidiaria del mezzo militare. La violenza si è fatta più astuta, sottile, penetrante, invisibile, addirittura desiderabile, perché le forme più grossolane sono meno passivamente subite. Ciò richiede una capacità maggiore di smascherarla. Il problema oggi non è tanto la guerra, quanto le immense violenze strutturate in sistemi economici. Un nuovo passo deve essere fatto dalla coscienza antiviolenza, ma uno ne è stato fatto, che ieri mancava.
La pena di morte, inflitta in misura crescente e raccapricciante dallo stato-guida, gli Usa, scandalizza e suscita movimenti di avversione. Sotto l’impressione delle cronache di delitti atroci l’opinione pubblica meno riflessiva reagisce anche chiedendo la pena capitale. Ma l’evoluzione morale è oggi nel senso di non ritenere più “normale” che lo stato possa uccidere un cittadino anche molto colpevole, con una vendetta a freddo, fuori dalla immediata emergenza.
Il nuovo diritto dei deboli
Le persone umane più deboli, gravemente impedite nelle comuni possibilità, erano un tempo viste con rassegnazione fatalistica, anche con pietà religiosa riflessa nel linguaggio, che era il modo di affermare la loro dignità, ma restavano emarginate o addirittura segregate. Oggi la coscienza comune esige come un diritto di queste persone che la scienza e la società facciano sempre di meglio per sopperire alle loro difficoltà. Là dove non arriva lo stato sociale, agisce il volontariato, importante fenomeno organizzato e visibile, di notevole peso sociologico. Molti giovani, invece di fare il militare, difendono la patria difendendo i concittadini più deboli. Quella che era un tempo la cura privata, grandemente meritoria, ha prodotto nel volontariato una dimensione ulteriore, che incide nella società e nella cultura e raggiunge anche le relazioni internazionali, come nella cooperazione e nella diplomazia popolare di pace.
Anche la violenza verso gli animali è oggi meno tollerata. Essa c’è, è sistematica e infligge crudelissime sofferenze agli animali da carne (motivo sufficiente per diventare vegetariani). Ma chi oggi ha più di cinquant’anni può ricordare i giochi infantili inutilmente crudeli verso gli animali, assai più frequenti e normali nella sua infanzia che oggi. Cose allora normali oggi sono patologiche.
È vero che vengono in luce o crescono atroci violenze finora nascoste a danno di soggetti deboli, come la pedofilia e la tratta degli emigranti. Ma ciò non elimina i dati positivi indicati.
Insomma, non stiamo assolutamente dicendo che tutto va bene. Vogliamo solo prendere atto di alcuni dati di fatto positivi, richiamati in questo rapido quadro che non ha pretese di completezza. Se ci sono questi punti d’appoggio, allora la nostra analisi deve restare realistica, senza paura di vedere orrori, ma non ci permette di cadere in un pessimismo scoraggiato e paralizzante. Anche se non vedessimo nessun segno di speranza dovremmo lottare contro ogni violenza. Ma se qualche luce di speranza appare, allora non possiamo trascurare il sostegno che ne viene alla volontà e all’azione. Se possiamo sperare, se qualche passo nel cammino verso una migliore umanità è possibile ed avviene, allora il nostro dovere è senza scuse, è più urgente. E insieme al dovere, la gioia calma e profonda di vivere per uno scopo degno.