Carità

di Locci Adolfo, Finti Meriem, Siviero Elide

Nella Torà

«Quando presso di te vi sarà un povero… non dovrai indurire il tuo cuore né serrare la tua mano nei confronti del tuo fratello che è bisognoso. Anzi dovrai aprirgli la tua mano e gli presterai quanto gli manca in modo che sia sufficiente rispetto alle sue necessità» (Deut. 15, 7-8).

Con queste parole, la Torà insegna uno dei precetti più importanti per la costruzione di una società civile, la tzedakà. È un dovere che si deve compiere per aiutare chiunque sia in disagio, una specie di tassa «volontaria» sui propri guadagni, anche se nessuno la pretenderà o stabilirà mai un’aliquota da applicare. Per questo in tutte le comunità ebraiche c’è un fondo, kuppat tzedakà, che raccoglie tutte le offerte elargite. L’istituzione di questo fondo permette a chi offre di non sapere a chi va la sua donazione e, a chi la riceve, di non sapere da chi arriva. È una forma di protezione della dignità di coloro che si avvalgono della tzedakà. Per il ricevente la tzedakà deve essere percepita come un prestito che, nel momento in cui potrà, restituirà. Bisogna fare attenzione che la tzedakà, quando risolve un problema materiale, non deve crearne uno psicologico. Pertanto, sono considerati come tzedakà tutti quegli atti di sostegno morale, di aiuto psicologico, che possono aiutare a superare un momento difficile.

Qual è il concetto che c’è dietro a questo precetto? Perché non ci si può «mai» esimere dall’eseguirlo? Per una giusta risposta a queste domande, si deve spiegare un principio basilare che c’è dietro il dovere della tzedakà: il «vil denaro», guadagnato con il sudore della nostra fronte, non ci appartiene totalmente. Il Signore, padrone dell’universo, è padrone anche dei nostri averi.

L’autore dei Salmi, quando dice che il mondo, e tutto ciò che contiene, appartiene a Dio, allude al fatto che nulla appartiene all’essere umano, quindi, nel fare tzedakà, restituiamo a Dio ciò che è già Suo. I saggi del Talmud, successivamente, sulla base di questo salmo, affermeranno che il Signore non chiede altro che la restituzione di una piccola parte del mondo, che Gli appartiene, a fronte della possibilità di usufruire del resto, che sempre Gli appartiene. La tzedakà è la forza più potente nel mondo, capace di prevalere su tutte le altre; ogni volta che una persona offre tzedakà, riceve la Shekhinà – la Presenza Divina, e avvicina la redenzione.

L’esegeta biblico Don Isak Abrabanel afferma che il ruolo dell’uomo è come quello di un intermediario che gestisce beni altrui. Se il «proprietario» ci ordina di investire in un «certo modo», dobbiamo obbedire alla richiesta, altrimenti ci toglierà il mandato di intermediazione per inadempienza. La ricchezza del mondo, che il Signore dona all’umanità, deve essere impiegata anche nella tzedakà.

La tzedakà ha anche effetti sul giudizio divino. Se il Signore ci ha giudicato colpevoli, praticare la tzedakà, insieme alla tefillà (preghiera) e alla teshuvà (la conversione spirituale e concreta del nostro comportamento) permetterà di convertire il nostro giudizio sfavorevole.

A chi non ha dimestichezza con l’ebraico, le traduzioni carità o filantropia della parola ebraica tzedakà potrebbero sembrare appropriate. In realtà, i termini greco-latini sono molto diversi da quello ebraico, anche dal punto di vista filosofico. La parola carità deriva dal latino caritas, che significa amore, benevolenza; la parola filantropia deriva dal greco philo – amore e anthropos – uomo. Filantropia vuol dire quindi amore per l’uomo. Ciò indicherebbe che solo quando sentiamo amore e compassione per l’altro, siamo portati a fare tzedakà. Al contrario, bisogna agire anche nei confronti di un mendicante, maleodorante, imprecante, offensivo, che esige la carità, verso il quale a volte non si prova né amore né compassione. La parola ebraica tzedakà, deriva da tzedek – giustizia, per cui, questo atto è solo la cosa giusta da fare.

Adolfo Locci

Nel Corano

«Non è possibile raggiungere la giustizia a meno che non si spenda (in carità) ciò che piace» (Il Santo Corano, 3:92).

La carità, il cui concetto è definito nell’espressione coranica «la spesa di ciò che Dio vi ha dato», significa usare la propria energia, talento, risorse, denaro, beni, o qualunque altra cosa, per aiutare e fare del bene a chi ne ha bisogno. In Islam carità è molto spesso citata accanto a preghiera, perché se in quest’ultima sta la relazione tra uomo e Dio, la carità rappresenta invece la relazione tra uomo e uomo e, in senso più ampio, con tutta la creazione di Dio; la preghiera esprime l’amore per Dio.

Qualsiasi gesto di bontà e di benevolenza è considerato un atto di carità: nutrire gli affamati, aiutare i poveri, avere cura di indigenti quali gli orfani, prestare aiuto ai disabili, aiutare un disoccupato a trovare un posto di lavoro, ecc. sono i più evidenti esempi di carità insegnata dall’Islam. Ma esso ne ha raccomandati anche degli altri, più piccoli; atti di carità che ognuno di noi ha la possibilità di fare ogni giorno: indicare la strada a uno straniero, porgere una parola gentile a una persona in difficoltà, dare consigli utili, insegnare ciò che si conosce, rimuovere dalla strada qualcosa che potrebbe causare un incidente; anche il semplice sorriso sincero, confortevole, benevolo, in faccia alle persone è carità.

Il Santo Corano ci dice: «Una parola gentile con il perdono è meglio di una carità seguita da un pregiudizio… O voi che credete, non rendete inutile la vostra carità a causa del rimprovero e del pregiudizio, come colui che dona la sua ricchezza per essere visto da persone…» (2:263-264).

La carità deve essere esercitata solo per amore di Dio, per il desiderio di fare del bene alla sua creazione, come raccomanda il Corano: «Essi forniscono cibo, per amore per Lui (Allah), ai poveri, agli orfani, e allo schiavo, dicendo: noi vi nutriamo solo per il piacere di Allah; non vogliamo da voi né ricompensa, né ringraziamenti» (76:8,9).

Come gli atti di carità coprono una gamma vastissima di azioni in Islam, allo stesso modo il cerchio di quelli verso i quali la carità deve essere esercitata è ampio. Essere caritatevoli è una dote che ogni musulmano ricerca al fine di raggiungere un più alto livello di spiritualità.

Oltre alla carità quotidiana, l’Islam ha reso obbligatoria una sorta di tassa il cui valore viene calcolato in base ai beni posseduti, che va spesa per il benessere delle persone svantaggiate. Tale servizio, noto come Zakaat, consiste nel consegnare una determinata parte della propria ricchezza annua che viene poi depositata in un fondo. Questo fondo è gestito dalla comunità musulmana o dal governo musulmano, ed è impiegato per aiutare i poveri, i disabili, i disoccupati, o altri in stato di necessità.

È, per il musulmano, come una tassa. Tale carità è moralmente positiva per il possidente, perché sviluppa in lui lo spirito di sacrificio e ne frena i sentimenti di avidità.

Diventa addirittura un pilastro della fede perché riporta alla luce le virtù e le doti più alte di una persona. Dio ha dato a ogni persona diverse capacità e risorse quali il denaro, la forza e abilità varie; questi beni vengono messi al servizio degli altri e non usati per il raggiungimento dei propri fini egoistici: sono doni di Dio ed è imposto da Lui alle creature lo scambio per il bene comune.

Meriem Finti

Nel Nuovo Testamento

La parola «carità» ai nostri giorni suona come desueta o ambivalente: la si usa per le opere di soccorso (opere di carità), oppure come termine tecnico teologico (la virtù della carità). Se da un lato oramai è chiaro a tutti che essa vuol significare «amore», dall’altro lato la parola amore non rende perfettamente il concetto di carità.

In italiano abbiamo solo un verbo per dire «amare», ma in greco, la lingua usata per il Nuovo Testamento, ci sono più termini: stergo, usato per dire l’amore dei genitori verso i figli e viceversa; erao, che indica l’amore appassionato degli sposi, l’amore erotico; fileo, l’amore degli amici; aspazomai, l’amore per l’ospite, usato nel Vangelo con il significato di saluto; e infine agapao, che qualifica l’amore di Dio e del cristiano. È solo il sostantivo derivante da questo verbo (agape) che viene tradotto in latino con caritas e in italiano con carità. Quindi il termine carità designa l’amore di Dio riversato su di noi, ma anche la risposta del credente a questo amore. Esso non si confonde con le opere di carità, perché non è semplice filantropia; ma non è nemmeno un amore astratto, teorico, puramente spirituale. Pur parlando di Dio non è fuori dalla realtà concreta delle cose. Tutto il linguaggio biblico, infatti, non è portato per l’astrazione intellettuale: è concreto e spesso dà alle parole un colorito affettivo: conoscere è già amare, essere fedeli ai legami familiari e sociali è già vivere l’amore. La carità allora indica l’amore di Dio che ci spinge ad amare. È un’acqua che zampilla su di noi e che ci permette di riversare quanto ricevuto sugli altri: solo chi è amato può amare; solo chi si sente amato può accogliere la sfida di amare senza misura.

San Paolo dedica alla carità un intero «inno» e altre pagine importanti dei suoi scritti. Ogni volta che ne parla, il suo dire è concreto: «La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità» (cfr. 1Cor 13, 1ss). Questo sconvolge: si parla dell’amore di Dio e questo si manifesta con tutti i tratti della relazione da costruire con un preciso stile, quello di Dio, che è paziente, buono, disinteressato, eccetera.

Anche nella lettera ai Romani, Paolo raccomanda la vita nella carità, sempre con accenti molto precisi e concreti: «La carità non abbia finzioni: fuggite il male con orrore, attaccatevi al bene; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda. Non siate pigri nello zelo; siate invece ferventi nello spirito, servite il Signore. Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell’ospitalità» (Rom 12,10-13).

Tutto questo potrebbe spaventarci: chi può arrivare a una tale vetta di amore, alla vera vita nella carità? La risposta ci viene dal comandamento di Gesù: «Amatevi come io vi ho amato» (cfr. Gv 13,34). Quel termine «come» è detto in greco con kathòs che non ha solo valore comparativo ma anche generativo. Esso significa: «Per il fatto stesso che io vi amo voi potete amarvi». È il suo amore che genera in noi la possibilità di vivere nella carità.

Elide Siviero

Adolfo Locci
rabbino capo di Padova

Meriem Finti
studente di storia delle civiltà e delle
culture orientali, Università di Bologna
Coordinatrice Comitato Emilia Romagna
dei Giovani Musulmani d’Italia

Elide Siviero
Ufficio diocesano
per il catecumenato,
diocesi di Padova