Benedetto Ratzinger a Regensburg e il dialogo con l’islam
Ma il papa non è un lettore di Madrugada
Dopo che molti hanno scritto sulla «Lectio Magistralis» del papa – del 12.9.06 nell’Aula magna dell’Università di Regensburg – ho pensato bene di scrivere qualcosa anch’io.
Davanti ai «rappresentanti della scienza», il papa in 3.565 parole ha trattato di Fede e ragione. Ha anche scelto una frase da mettere in rilievo, ripetendola per ben cinque volte: «Non agire secondo la ragione è contrario alla natura di Dio».
La lezione magistrale
Il papa ha iniziato con una citazione, come spesso fanno i conferenzieri. La frase scelta è di Manuele II Paleologo, Basileus (cioè imperatore) di Bisanzio, autore del libro Dialogo contro il maomettanesimo. Manuele II in una notte d’inverno del 1391, dialogando con un Mudarris, teologo musulmano persiano, dice: «Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava. [Ma] Dio non si compiace del sangue; non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio. La fede è frutto dell’anima, non del corpo. Chi quindi vuol condurre qualcuno alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare correttamente, non invece della violenza e della minaccia». Il senso è chiaro: il cristianesimo ricorre alla ragione, l’islam ricorre alla spada.
Questa citazione è stata trasformata dai mezzi di comunicazione e anche da governanti e autorità del mondo islamico in un caso «vignette bis». Ma a noi qui interessa il contenuto della conferenza, tutta intesa a provare la tesi che il cristianesimo è intrinsecamente secondo ragione. Il papa ricorda la frase che apre il libro della Genesi e la Bibbia tutta: In principio Dio creò il cielo e la terra (Gn 1,1).
Ricorda anche la frase di Dio stesso che si rivela a Mosè nel roveto ardente: Io sono colui che sono (Es 3,14). Quindi si concentra nella frase che apre il prologo del Vangelo di Giovanni: In principio era il Logos, e il Logos era presso Dio e il Logos era Dio (Gv 1,1). Il papa commenta: «Dio agisce con «logos». «Logos» significa insieme ragione e parola una ragione che è creatrice e capace di comunicarsi ma, appunto, come ragione. Giovanni ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi». Qui troviamo la sorgente dell’incontro tra il messaggio biblico rivelato da Dio e il pensiero greco che ha perfezionato l’esercizio della ragione.
Per la comprensione della sintesi tra la fede biblica e l’interrogarsi greco, è bene ricordare due teologi. Agostino di Tagaste, dice che il Dio che si rivela nelle Scritture è lo stesso che ha creato la ragione umana, quindi la filosofia che fa buon uso della ragione porta alla conoscenza del vero Dio. Alla luce di tale principio, Tommaso d’Aquino ha cercato la migliore filosofia greca, perché fosse l’ancella nell’elaborazione della teologia basata sulla Rivelazione. Tommaso adottò la filosofia di Aristotele che egli riteneva il filosofo greco più dotato di rigore scientifico e creò il tomismo, un sistema meraviglioso che rimane a tutt’oggi il riferimento obbligato della fede della chiesa cattolica.
Gli attentati alla ragione
Il teologo Ratzinger confessa i suoi due amori: la grecità (da buon tedesco) e il tomismo (da buon uomo di chiesa).
Per evidenziare l’eccellenza della sintesi della fede mediata dal patrimonio greco, criticamente purificato, il papa fa conoscere alcune posizioni devianti. Parla di Ibn Hazn, teologo e polemista musulmano del secolo XI, il quale «si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe legato neanche dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a rivelare a noi la verità». Poi il papa «per onestà» annota che, «nel tardo Medioevo, (…) in contrasto con il cosiddetto intellettualismo agostiniano e tomista iniziò con Duns Scoto una impostazione volontaristica», vicina alle posizioni di Ibn Hazn.
Ma è a partire dal Rinascimento che l’Occidente ha rotto il connubio fede-ragione, ripudiando il pensiero ellenico nella teologia. La prima «onda dis-ellenizzante» venne con la Riforma del XVI secolo, che separò la fede dalla metafisica (lo stesso Kant ha ancorato la fede esclusivamente alla ragione pratica). La seconda onda è presente nella teologia liberale dei secoli XIX e XX, influenzate dal positivismo, secondo il quale ci sarebbe scientificità solo quando c’è sinergia di matematica ed empiria. La terza onda dis-ellenizzante è costituita dall’attuale volontà di inculturare nelle varie culture il messaggio cristiano libero dalla sintesi con l’ellenismo: il papa ricorda che tale sintesi non è opera della chiesa antica ma è già nel Nuovo Testamento.
Il papa si premura di chiarire che la sua «critica della ragione moderna non include l’opinione che si debba tornare indietro a prima dell’illuminismo». La scientificità, il cui ethos è «volontà di obbedienza alla verità», è in sintonia con lo spirito cristiano. Il problema odierno, dice il papa, consiste nel ritenere che siano universali solo la ragione positivista e le forme di filosofia da essa derivate. Tale «ragione» è monca. Inoltre una ragione «sorda al divino» inibisce il dialogo con le varie culture non occidentali che sono profondamente religiose.
Obiezione sullo strumentale
A questo punto mi permetto di dialogare col fratello papa, esprimendo qualche mia perplessità.
La prima riguarda l’insistenza sulla ragione, il cui nome compare 46 volte nel testo. Essa mi ha ricordato la preoccupazione apologetica di Matteo Ricci che chiedeva ai cinesi di seguirlo nel suo ragionamento sillogistico sulle prove dell’esistenza di Dio… Ricci s’era preparato nei collegi dei gesuiti e aveva participato con entusiasmo alle «disputationes» domenicali; partendo poi per la Cina, s’era investito della missione di recuperare in Oriente per la gloria di Dio il terreno che la chiesa cattolica aveva perduto in Occidente a causa della Riforma. In realtà Ricci convinse non pochi cinesi alla sua tesi. Ma risulta che i più intelligenti dei cinesi si chiedessero da che tipo di fissazione fosse afflitto il missionario, per continuare a sezionare i problemi come un capello in quattro parti col coltello della ragione (Ricci aveva anche tradotto in cinese La Logica di Aristotele, e i primi libri dei Principi di Geometria di Euclide). Chi non sa, obiettavano gli interlocutori cinesi, che la verità non si raggiunge per una sola via, ma per cento? Oltre alla via della ragione, ci sono quelle della sapienza, del cuore, dell’empatia… Inoltre, i cinesi proponevano la filosofia del Tao, cioè della Via (Logos?) che dà cittadinanza al Vuoto oltre e più che all’Essere. Quanto al Dio proposto da Ricci, a essi sembrava un Orologiaio (Ricci costruiva e regalava grandi orologi).
E l’universo di Ricci, invece di un organismo vivente, pareva un grande orologio, studiato superficialmente dal meccanicismo occidentale.
Alla luce di queste considerazioni, mi chiedo se non ci sia eccessiva rigidità nello schema del teologo Ratzinger, quella stessa di quando egli era il tutore della dottrina della fede e imponeva silenzio ossequioso ai teologi troppo aperti. Mi chiedo anche se basarsi solo sulla ragione non sia restrittivo per il dialogo culturale, e più ancora per quello religioso.
Se Dio è amore
La mia seconda perplessità riguarda il nome di Dio: è amore oppure logos? Il papa, prevedendo questa obiezione, ha anticipato la risposta: «Certo, l’amore sorpassa la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del semplice pensiero (cfr. Ef 3,19), tuttavia esso rimane l’amore del Dio logos».
Si noti che al papa non sta più a cuore, come si potrebbe supporre, la frase principale relativa all’amore, ma quella secondaria, introdotta dal «tuttavia», relativa al logos. Tanta insistenza sul logos rivela che l’ortodossia è considerata più importante dell’ortoprassia, legata all’agape-amore.
Faceva notare Frère Roger Schutz: «Molti si chiedono: Come è possibile che i cristiani, che accondiscendono spesso a condividere i doni spirituali, siano in generale così poco inclini nella loro storia a condividere anche i beni materiali? L’ingiusta distribuzione delle ricchezze, più ancora quando esse sono detenute dai cristiani, è una ferita inferta all’insieme della comunità umana». La filosofia che ha aiutato la comprensione della rivelazione, ha anche aiutato la pratica evangelica? Pare che la condivisione e la giustizia, leitmotiv nel Vangelo, abbiano avuto uno sviluppo inversamente proporzionale allo sviluppo della teologia ufficiale. Quando i teologi dell’America Latina, preoccupati dell’ortoprassia, sono ricorsi alle scienze socio-politico-economiche come strumentale invece del pensiero filosofico greco, sono stati tacciati di eresia e marxismo.
Dovrebbe indurci a riflettere questo dato: mezzo mondo continua a pensare che a Roma e a Washington ci sia un enorme gap tra ortodossia proclamata e ortoprassia negata.
Cioè non solo gli Hezbollah, ma buona parte degli africani, asiatici e latinoamericani pensano due cose: che Washington (e l’Occidente in generale) parli di pace ma nutra e si nutra di guerra, parli di giustizia ma rubi in molti modi; e che la civiltà occidentale abbia il cristianesimo come sua religione e quindi anche la chiesa sia schierata con Washington e con i dollari di Wall Street. Naturalmente si tratta di una visione distorta, ma non del tutto falsa. Basti pensare all’aggressività globale dell’Occidente che si dice cristiano e dei suoi modelli economici e culturali. È vero che nella chiesa ci sono stati Francesco Saverio, Bartolomeo de Las Casas, Madre Cabrini, Oscar Arnulfo Romero e tanti altri, ma si tratta in ogni caso di minoranza. La chiesa che chiede ufficialmente perdono perché alcuni suoi figli sono stati colonizzatori e oppressori, benedice Dio a motivo dei ricchi, che lei invita non alla giustizia ma a una vaga solidarietà.
La nostra chiesa ritiene possibile – non in teoria ma nella pratica – servire a due padroni: a Dio e alla ricchezza. E quando il papa sostiene che noi abbiamo la ragione e altri hanno la spada, sta solo ripetendo il discorso dei signori della globalizzazione.
Volendo parlare di dialogo tra le culture e le religioni, e così evitare lo scontro di civiltà, bisognerà rivedere certi luoghi comuni e fare delle scelte operative.
A scuola di dialogo
Una terza e ultima perplessità. Leggendo le parole pesanti di Manuele II che accusa l’islam di irrazionalismo, mi sono chiesto: «È mai possibile che alla fine del secolo XIV l’islam mancasse di ragione, se è ai filosofi arabi come Ibn Sina (Avicenna, 980-1037) e Ibn Rushd (Averroè, 1126-1198) che dobbiamo la conservazione, la diffusione e i commentari delle opere di Aristotele?».
Mi sono quindi accostato all’intero testo in questione. È una delizia, nonostante la preoccupazione apologetica del basileus Manuele. Il dialogo incalza appassionato, senza esclusione di colpi, eppure a suo modo rispettoso. Nei due interlocutori c’era convinzione, curiosità, preparazione e voglia d’apprendere; quindi c’era lo sforzo di mettere tra parentesi le proprie categorie per capire bene il pensiero dell’altro.
Vediamo. Manuele II dice che il ricorso alla guerra santa e/o alla jihad per diffondere la fede svilisce l’islam perché «Dio non si compiace del sangue». Il musulmano ribatte che l’islam è più ragionevole del cristianesimo perché è fondato sulle virtù (aristoteliche) della moderazione e della praticabilità, della misura e del giusto mezzo.
I due devono ammettere che nella fede vi è di fatto alcunché di folle, ma tale follia è più presente nel cristianesimo che nell’islam. Per esempio, il credo di Cristo, che fa grande il cristianesimo, propone cose impossibili: l’amore ai nemici, odiare i famigliari, porgere l’altra guancia, perdere la propria anima, non compromettersi con le cose del mondo… Tutto questo è dismisura, non-ragionevolezza (Manuele II deve ammetterlo). Dice il musulmano: «Qual è l’uomo di ferro, di diamante, più insensibile della pietra, che sopporterà queste cose?». Il dialogo si protrae, con il musulmano che rincara la dose dicendo che la vita cristiana, quando è perfetta, non è solo una strada difficile (come Manuele ritiene), ma è contraria alla ragione, è disumana, pari a una trappola.
Manuele II contrattacca: le leggi nell’islam sono, oltre che copiate dalle sorpassate leggi di Mosè, rigide, abbordabili e troppo semplificate. Risponde il musulmano che la croce la quale spiritualizza le leggi cristiane, è follia. Ma il basileus ribatte che la croce non è senza speranza, al contrario, c’è un’illimitata speranza; e i dolori della vita presente non sono paragonabili con la gloria futura: quindi il cristiano è in attesa, ha la speranza certa che verrà il regno celeste promesso. Ancora una volta il musulmano ribatte: «Vivere con simili speranze non permette di mantenere la misura» e di evitare il peccato di orgoglio.
Insomma, l’incontro ha mostrato due giganti del dialogo.
Se Benedetto XVI apre la chiesa all’incontro con la ragione moderna (a patto che anche questa si apra), Manuele II ha fatto di più: ha ammesso l’ossimoro, come speranza nell’insperabile, fede nell’incredibile. E il teologo persiano non ha paragone nei musulmani d’oggi: forse perché viveva in un’epoca d’oro dell’islam, ha mostrato voglia e capacità di dialogo ad alto livello, virtù assenti oggi in troppi musulmani, anzi, sostituite dalla rabbia.
Un dialogo sulla base della ragione, quale il papa propone, rischia di diventare un gioco, con un regolamento e un clima di competizione: niente armi (fanatismi religiosi), vale solo «la capacità di parlare bene e ragionare correttamente»; e vinca il migliore! Il vero dialogo invece va cercato a un livello più profondo, nella ricerca di maggior verità dicendo e ascoltando l’altro, facendo il vuoto e disponendoci ad «attraversare cornici».
Chissà?, si capisce allora perché è più facile il dialogo spirituale tra i mistici di tutte le religioni che hanno fatto il vuoto e si perdono in Dio. Chissà che la porta del dialogo non sia la laicità, intesa certo non come dimensione esclusiva ma inclusiva, dove l’ebreo, il buddista, il cristiano, il musulmano, il non-credente… si incontrano non con rivendicazioni in base all’appartenenza religiosa ma per la comune umanità.