Bambini da produrre, bambini da creare
Fra le merci: un’educazione difficile
Una bambina che nasce nel villaggio brasiliano di Aricurù, sulla costa atlantica del Parà, vive sicuramente molto lontana da una bimba che nasce a La Spezia.
La prima passa la sua giornata con una decina di coetanei, maschi e femmine, correndo sulla spiaggia o nella foresta, mangiando frutta tropicale che raccoglie sugli alberi dove si arrampica o assaggiando pesce in qualsiasi casa del villaggio dove passa quando ha appetito. L’appuntamento fisso è la scuola al mattino: una stanza aperta sul villaggio, affollata e caotica, con tutti i bambini fra i 6 e i 10 anni messi insieme. Ma la vera scuola in cui impara moltissimo è quando tutto il giorno gioca con gli altri bambini, occupandosi dei più piccoli, inventando meravigliosi giocattoli con le foglie, i legni e gli oggetti che trova in giro. Gli adulti sono presenze affettuose, numerose (altro che due genitori!), ma sempre ai margini.
La seconda ha invece una vita super organizzata di attività stimolanti e diversificate (e costose). Quando non corre fra la palestra e la lezione di musica, la scuola e lo shopping, sta in casa in una stanza piena zeppa di giocattoli che spesso non ricorda nemmeno di avere. Gli adulti che vede sono per la maggior parte «funzionali», non li sceglie e non vi si lega come persone, perché simpatiche, sagge o affettuose, ma per i ruoli e le competenze che hanno, perché insegnano qualcosa o intrattengono, siano genitori, nonni, babysitters o maestri/e di vario tipo.
Quale vita è a misura di bambino? Quale vita è ricca di emozioni e affetti? Di equilibrio fra testa e cuore, fra «io» e «noi»?
Portati nel mondo
Gli elementi che maggiormente colpiscono nelle due realtà sono il ruolo degli adulti (onnipresenti nel secondo caso e apparentemente assenti nel primo) e il ruolo degli oggetti (merci numerose nel secondo caso, pochissimi e perlopiù creati da mani umane – adulte o bambine – nel primo).
Da un certo punto di vista sembra che la nostra società sia molto accogliente: da quando il neonato vede la luce è al centro di tutte le attenzioni, ricoperto di regali. L’accoglienza per la nostra società si è coniugata perfettamente con il mercato: i bambini sono circondati di merci. Il fatto non è più che non manca niente, ma che c’è veramente troppo! Nelle culture pre-industriali l’elemento centrale della cura e dell’accoglienza è la relazione intensa con il corpo della madre: per lunghi mesi i bambini continuano a essere l’appendice di un corpo più grande, infatti quasi ovunque nel mondo (anche da noi nel passato) i bambini sono tenuti alla schiena della madre o dei fratelli e sorelle fino a quando sanno camminare da soli: da lì imparano il mondo, i suoni e gli odori, i gesti, le posture e il linguaggio, ma anche la rabbia e la felicità, la fatica e l’affetto, la creatività e il ragionamento.
Da noi in ospedale il neonato è accolto con una valigetta consegnata da zelanti infermiere assoldate da imprese distributrici: essa segna l’ingresso nel mondo, l’appartenenza a questa società e dichiara il destino del nuovo nato come consumatore. La valigetta contiene numerosi campioni e informazioni su tutto il necessario per vivere (latte in polvere, creme, olii, come aprire un conto in banca, dove fare un servizio fotografico, dove acquistare succhiotti, vestitini, ecc.).
La presenza delle merci in eccesso diviene subito un aspetto evidente. Nel giro di pochissimi mesi dall’arrivo di un bimbo, la casa si riempie di una tale folla di giochi e di accessori da porre qualche problema di gestione degli spazi domestici. La proliferazione di giochi pare induca nei bimbi uno stato di inquietudine permanente, un’ansia da insoddisfazione, la difficoltà a fare scelte. L’eccesso dà ai bambini una sensazione simile all’indigestione, crea un ambiente non «contemplabile» per intero e pertanto l’impossibilità di relazionarsi con essi, con ciascuno di essi, affettivamente, semplicemente perché sono troppi. La perdita del legame con le cose è parallela alla difficoltà del legame con le persone: non si impara a stare dentro relazioni continuative e ricche di senso nemmeno con una bambola, a vivere la gioia del tempo che scorre con un trenino e il dolore della separazione dal gioco più amato che è stato perduto o rotto. I giochi di oggi sono spesso già confezionati, di plastica, chiusi, con poco da scoprire e da creare e molto da scimmiottare.
La dipendenza radicale
I bambini di Aricurù mi davano l’impressione di una grande autonomia e contemporaneamente della capacità di stare insieme, di fare insieme le cose, di condividere, di aiutarsi fra grandi e piccoli: se a uno regalavo dei biscotti, non è mai successo che se li mangiasse da solo, chiamava gli altri amici e li divideva. Erano bimbi discreti e silenziosi, grandi osservatori ed esperti nella vita, tanto da prodigarmi consigli per sopravvivere a insetti e animali selvatici.
I bambini avrebbero bisogno di essere liberi di esplorare i propri bisogni, di avere intorno adulti capaci di ascoltarli e di aiutarli nell’ardua opera di decifrazione di sé. Si ritrovano invece con adulti frettolosi, spesso carichi di sensi di colpa per non dare ai figli tempo e affetto e quindi bisognosi di compensare questa carenza. Questo li rende debolissimi e soprattutto incapaci di porre limiti, di giustificarli e osservarli loro stessi. L’assenza di limiti comunica ai bambini l’assenza di cura degli adulti e impedisce il processo di costruzione di sé come soggetto fra altri. Resta l’io, l’egoismo, l’isolamento.
Questi meccanismi creano esseri umani espropriati della propria capacità di autodeterminare i propri bisogni, cioè vivono dentro un regime di dipendenza radicale, perché i nostri bisogni sono indotti da pressioni pubblicitarie o dal fatto che altri (tutti gli altri!!) hanno quella merce o quell’apparato; averlo serve a non essere valutati (a non valutarsi) come inferiori: avere qualcosa è imprescindibile per essere qualcuno e bisogna avere quello che altri ci dicono è necessario.
I bambini avrebbero bisogno diàverità e trasparenza e si trovano in una società fondata sulle mistificazioni, prima fra tutte quella di vivere in un regime libero, quando la sola libertà concessa è quella di consumare, non di obiettare, di vivere diversamente, di seguire percorsi personali, pena non più il carcere o la pena di morte, ma il non riconoscimento, la presa in giro.
I bambini che il mercato plasma sono piccoli adulti, allettati e interessati a consumare, preparati a scimmiottare i vizi e i ruoli dei grandi, senza imparare scelte e reazioni emotive, né gesti e azioni, per una equivoca e pericolosa pedagogia che tiene il lavoro materiale lontano dai più piccoli. Gli adulti d’altra parte vengono infantilizzati, perché costretti seguire una logica di approccio alla realtà chiamata consumismo, predatoria e soprattutto non razionale e non economica: la pubblicità funziona per suggestioni, ipnosi, non per argomentazioni e il sistema va meglio tanto più fa spendere soldi anche a chi non ne ha, tanto più consiglia vivamente merci deleterie per il pianeta e per la gente.
Niente ricette né rivoluzioni
Produrre bambini non è come produrre bulloni. È un po’ da sprovveduti pensare che si possa programmare una nascita, il sesso, il colore degli occhi e l’assenza di malattie; o investire i propri geni e tanti soldi per avere il figlio sognato; o infine scegliere le migliori babysitters, le scuole più prestigiose e le vacanze-studio all’estero perché la figlia sia una bella persona. Un essere umano integrato, capace cioè di ammettere le proprie paure, di dire addio, di scegliere ai bivi della vita, di pensarsi e ripensarsi ogni giorno, di trovare il senso alle proprie azioni e di amare qualcuno è un bambino che è stato «fatto» lungo molti anni da impercettibili azioni, è una bambina che è stata consolata quando aveva paura del buio, che è stata accompagnata al momento giusto e lasciata sola quando bisognava, che ha ricevuto tanti baci e carezze, che è stata portata a vedere il tramonto; è un bambino a cui qualcuno ha insegnato a odorare i fiori, che è stato incoraggiato a dare la mano a un bambino diverso da lui. È una bambina che ha goduto di una miriade di micro-azioni che quando sono state compiute non avevano affatto l’intenzione di creare un essere umano, anzi apparivano come perdite di tempo, fine a se stesse, a volte addirittura come fatiche per chi le faceva. Azioni nascoste, impercettibili, impastate con il quotidiano. Perché «produrre» un bambino non è come produrre un bullone e solo quando l’adulto che ne esce è triste o disperato o inetto ci rendiamo conto che sono mancate, che gli adulti che ha avuto intorno sono stati genitori a metà, non sono riusciti a fare la fatica della creazione.