Appunti di «campamento». Frammenti di esperienza di una osservatrice straniera nei «Campamentos civil por la paz» di alcune comunità indigene della Selva Lacandona

di Stanzione Gabriella

Sotto il grande albero
Con un encendeador Bic accendo una sigaretta «Montana», seduta sulla panca sotto la ceiba (un grande albero) della Realidad. La donna che sta falciando il prato con il suo machete ha lunghi capelli neri ed un vestito arancione che pone in risalto la sua pelle scura. Potrebbe essere indiana o araba, o zingara o del sudest asiatico. Invece è di qui, del sudest messicano. Sono loro la maggioranza. Per quanto mi possa abbronzare non avrò mai i tratti somatici della gran parte della popolazione mondiale. O la pelle scura, cotta dal sole, di tutti i campesinos della terra.

Ricordi a confronto
Penso alla legna che ho caricato stamattina, che già mi ha fatto sudare molto e mi sembra già abbastanza pesante. E alle mujeres di qui che cortano e ne caricano molta di più, e tutti i giorni. Allora penso a mia madre quando lavora la terra, che si alza presto la mattina e lavora come un mulo, che sia freddo o caldo non importa. E ricordo mia nonna ed i suoi racconti, di quando andava a spigolare di notte, con la figlioletta di pochi mesi aggrappata al collo.

Terra e sudore
C’è una costante di sudore, terra, piedi scalzi e veloci, mani abili e sicure, sguardi semplici e discreti, fumo e tepore di legna bruciata, panni da lavare al fiume e bimbi da allattare, uomini forti e scherzosi, bimbi arruffati e vivaci ­ già adulti ­, milpa o campo da seminare, maìz o grano da macinare, e tempo per lavorare, per aspettare, per ballare, per nascere, morire e lottare; che attraversa spazi e tempi e che appartiene all’uomo, alla sua essenza, alla Storia. Che soffia incontenibile come vento, sgretolando scienza e ideologia, politica e religione. Che sa esprimersi ­ ed allora riesce ad essere ascoltata e compresa ­ con parole limpide e forti, che fondono passato e futuro, mito e realtà, e non sono per questo meno presenti e reali (…anzi, ci suonano familiari)… Come il racconto di Marcos dei sette arcobaleni (forum indigeno a San Cristóbal de las Casas, 7 gen­ naio 1996).

La parola nel petto…
Ho l’impressione che qui le cose siano più facili da capire, e semplici da raccontare, perché la parola (ossia la sua eco, l’eco di ciò che nasce nel petto, secondo quanto diceva Canek) riesce ad essere specchio di ciò che si sente, e non è velata dalla corazza d’ipocrisia e conformismo alla quale noi siamo abituati in occidente.

…e nei ritmi della natura
Qui la vita della gente si fonde con i ritmi della natura, ed il tempo sembra dilatarsi, confondendo ore, giorni e date del calendario in un continuum scandito dai cicli dia­noche, caldo­freddo, sole­pioggia, caffè­mais… ai quali noi, «osservatori stranieri», non siamo abituati. Immaginatevi un paesino dove si fa junta (assemblea) quasi ogni giorno, perché tutti possano discutere delle cose comunitarie ­ dai turni di lavoro nella milpa collettiva alla durata della marimba nei giorni di festa, o una misa (messa) in una baracca di legno che diventa uno sfolgorio di luci, candeline, festoni colorati, tamburi, chitarre e canzoni dal ritmo allegro, profumo di incenso e calore di gente, ninos che scorazzano qui e lì, creando uno stabile brusio di sottofondo, letture sacre, lette e discusse in gruppi (maschili e femminili), quindi sintetizzate in plenaria prima o dopo le preghiere tradizionali.

Vivere con dignità nella Selva
Immaginatevi ore ed ore di lavoro manuale (qui la gente si alza alle 4 e mezzo del mattino), che garantiscono appena il minimo per sopravvivere in villaggi senza elettricità, senza acqua potabile, senza fognature, senza scuole, senza strutture sanitarie, senza mezzi di trasporto e di lavoro adeguati. Dove però si fanno turni di lavoro anche per i più deboli (anziani, malati); dove le comunità formano una rete di solidarietà reciproca che distribuisce aiuti a quelle più povere; dove si stanno creando scuole ed ambulatori autogestiti, con l’aiuto di volontari esterni ed il sacrificio di manodopera interna. Dove la consapevolezza di un’esistenza dura e precaria (comune anche ai più piccoli, come quel bam­ bino che una volta mi ha detto: «Io non diventerò grande…») non cancella la dignità presente nei loro sguardi, nelle loro azioni, nelle loro parole. E hai la certezza che nessuno potrà strappargliela mai, né la miseria né la repressione. Dove, a volte, le nostre posizioni colte, articolate e complesse si arrendono dinanzi alla chiarezza e vitalità di discorsi «semplici» ed «ingenui» (come quando raccontano la Bibbia parlando della vita quotidiana). Qui incontriamo modi di vivere differenti, tanto lontani geograficamente quanto vicini alle nostre utopie. Non ci resta che trovare la chiave ­ a ciascuno la sua ­ per entrare in questa nuova realtà. E guardare, aspettare, imparare e lentamente conoscere persone e abitudini, scoprire parole e sentieri, provare altri modi di ballare e di cucinare, confrontarsi con altre forme di organizzazione e di pensiero.

Lucciole, stelle, pulci e bagni
Che dire ancora della vita da campamentista?…
… di notti trascorse a cercare la giusta posizione nell’amaca…
…dell’impaziente (ma necessaria) attesa prima di riuscire ad accendere il fuoco a prima mattina con la legna umida…
…di mosquitos, duritos, zanzare, pulci, cucarachas e via dicendo (e delle loro tracce tangibili sul nostro corpo o nella comida!)…
…delle risa a stento trattenute dalle donne del pueblo quando, con fatica ed imprecazioni, usiamo l’accetta o il machete…
…di splendidi bagni quotidiani nelle cascatine del rio (però noi donne solo quando non ci sono uomini e cavalli)…
…del sordo rumore con cui si annuncia ogni giorno la venuta dei militari…
…della voglia di aiutare…
…di lucciole e stelle che giocano ad illuminare la notte…
…del verde vivo ed umido della selva imponente…
…della nebbia serale e mattutina nella quale ogni giorno scompare e riappare il villaggio…
…di tempo per riposare, sognare, riflettere…
…di voglia di condividere…


Dura la vita, sempre
Don Massimiliano mi spiega che qui ci sono sempre periodi di magra, è la vita che è così qui. A volte c’è sia il mais che i fagioli, che la frutta, che il chile (peperoncino) ed il caffè. Altre volte il raccolto non è buono, o è malpagato, o termina. Allora invece di tortillas e fagioli si mangia solo il pozol (bevanda di mais), o se manca anche quello ci si accontenta di agua de chile e verdure selva­ tiche raccolte qui e lì. Le uova sono sempre poche, e quando si ammazza una gallina (o un porco) significa che è giorno di festa. Quando la comunità riesce a risparmiare del denaro non lo spende per le necessità contingenti, perché deve salvaguardare il futuro: se vengono i militari saccheggiano ogni cosa, per cui è meglio dotarsi di una scorta in denaro da portare via facilmente (nel senso che si fugge: e si abbandona tutto, case, animali e campi per nascondersi nella selva ­ vedi Guadalupe Tepeyac, 9 febbraio 1995). Don Massimiliano mi spega anche che con gli «aiuti umanitari» sono arrivati nuovi costumi (per esempio mangiare riso) e lattine e cibarie sconosciute. Qualcuno ha pure imparato a cucinarle, però non la maggioranza, anche perché «aiuti» (e lattine) vanno e vengono.

Chiapas: solo un caso umanitario?
Sono ancora molti, oggi, della «società civile messicana», che pensano che ciò che accade qui sia un problema di tipo «umanitario» e interessi solo una zona del paese (il Chiapas) o una fascia della popolazione (quella indigena). Ancora non intendono la lotta di chi chiede «Todo para todos, nada para nosotros», di chi vuole svegliare le coscienze della gente ­ in qualsiasi luogo, di qualsiasi condizione ­ perché tutti riaffermino la propria dignità di esseri umani, il diritto a decidere della propria vita, ad esprimersi nella libertà, nel rispetto, nella giustizia, nella democrazia.

Contro l’oblio
Marcos dice: «…Abbiamo messo già insieme i semi. Dobbiamo preparare la semina, il domani. Oggi ci tocca vivere in un paese che non è come quello in cui vissero i nostri avi più antichi. Oggi viviamo in un paese che ha un governo che vuole consegnarci allo straniero venduti come animali, come cose. Noi indigeni siamo cattiva mercanzia. Il gran potere del denaro non vuole comprare una mercanzia che non produce buon guadagno. Siamo un cattivo affare… Per questo l’intento dei governi è di regalarci oblìo e repressione, perché non possono realizzare un buon prezzo se ci vendono. Ora dicono di voler modernizzare il loro negozio e devono eliminare tutta la mercanzia che non sia attrattiva e noi, con la nostra pelle scura e questa voglia di stare legati alla terra che ci fa piccoli, non siamo attrattivi. «Ci vogliono dimenticare. Però non solo noi indigeni siamo minacciati da questo oblìo… «… Vendono tutta la nostra casa e vendono, con essa, la nostra storia. Se vogliamo salvarci dalla dimenticanza dobbiamo salvarci insieme, uniti… «… Adesso non basta più solo non morire, lo abbiamo appreso in cinque secoli, adesso è necessario vivere e viverci anche insieme agli altri che siamo noi».

[dall’intervento conclusivo al Foro Nazionale Indigeno, 3­9 gennaio 1996]

Le trecce grigie nel crepuscolo
È l’ora del crepuscolo, l’ora magica in cui si confondono luci ed ombre, contorni e colori. Mi sembra di riconoscere le trecce grigie di mia nonna in quelle dell’anziana signora che mi sta parlando, e la luce stanca dei suoi occhi in quelli di lei, che ora si increspano mentre, parlando di questa guerra ormai al terzo anno, accenna al figlio morto ammazzato un anno fa, a lui che era entusiasta, e credeva in questa lotta.

La minaccia della forza
I militari continuano a passare, tutti i giorni, andata e ritorno. Sono una processione di 15­19 veicoli di carri truppa e blindati, che portano dai cento ai centoquaranta uomini e più, equipaggiati con armi, radio e video­camere, accompagnati spesso da aerei ed elicotteri, carichi di alimenti e di attrezzi da lavoro. Già, infatti sono occupati a riparare ­ un po’ di chilometri più avanti ­ la strada che loro stessi hanno rotto. Ridicola (ma inoppugnabile) scusa per queste incursioni quotidiane che rubano serenità alla vita del villaggio ed al lavoro nei campi, interrompendola con una presenza sprezzante che è ricordo e presagio di distruzione, che è segno di controllo e messaggio di minaccia, che è sfrontatamente, arrogantemente illegittima in un periodo di accordi e dialoghi di pace. Lo sanno, tutto ciò, quegli ufficiali dallo sguardo impermeabile e dal sorriso furbo e sicuro che ci «salutano» tutti i giorni? E quei soldati­bambini che a volte nascondono il viso, a volte ridono nervosi, a volte ci lanciano gesti osceni, ma che sembrano così fuori luogo qui, pronti a sparare sui propri fratelli?

Fino a quando?
Mi tornano in mente le parole di Canek (indio messicano del 1700, profeta ribelle e martire che la storia ufficiale non conosce, così come dimentica i protagonisti delle innumerevoli ribellioni che si sono suc­ cedute in questo paese in 500 anni di resistenza indigena), che diceva: «Gli dei nascono quando gli uomini muiono. Finché gli uomini avevano confidenza tra di loro non c’era bisogno degli dei. Gli uomini potevano confidare i loro sentimenti ed i loro pensieri ad altri uomini; potevano dire la loro parola agli altri uomini senza paura, senza inganno. Ma quando gli uomini si nascosero agli occhi degli altri uomini per consumare i frutti che la natura offriva a tutti, quando gli uomini presero ad odiare gli altri uomini a causa della passione per una donna, quando gli uomini fecero in segreto la preghiera, che si tiene in pubblico, allora nacquero gli dei. «Perciò gli dei diventano tanto più forti, più crudeli e più distanti, quanto più grande è la sfiducia che separa gli uomini tra di loro».

Il Potere cieco
Quando si sente minacciato, il Potere sa essere cieco e crudele, ma anche sottile e perfido. È quanto stiamo sperimentando noi osservatori civili internazionali dei Campamentos por la paz. Siamo evidentemente divenuti dei testimoni scomodi per una paese che si preoccupa di salvare la sua immagine pubblica presentata al mondo come «moderna» e «democratica». Così ha cominciato a costruire una serie di ostacoli, attraverso vincoli e cavilli burocratici che permettono sia la riduzione della durata del visto turistico (in entrata non più 90 o 60 giorni come era normale ottenere, ma 30; per il rinnovo, soprattutto se italiani e nei pressi del Chiapas, 15 giorni o addirittura niente), che gli speciali controlli agli uffici della Migraciòn, dove veniamo schedati, interrogati e fotografati come se fossimo delinquenti.

Boicottaggio degli accampamenti di pace
Il risultato è impedire che qualsiasi straniero entri nelle comunità minacciate dall’Esercito Federale, ed è chiaramente preoccupante, perché non ha altra possibile spiegazione se non la chiara intenzione del governo di reprimere militarmente la popolazione, in barba a tutti gli accordi e promesse di pace finora sbandierate, ed in piena coerenza con la linea tenuta finora (e cioè una sistematica violazione delle trattative in corso e di ogni singolo patto effettuata tramite l’aggressione militare ai villaggi ritenuti zapatisti ­ completamente saccheggiati o distrutti ­, violazioni di donne, intimidazioni ed arresti di simpatizzanti).

Esercito zapatista: volontà di pace
Eppure l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale ha sempre manifestato la chiara intenzione di essere ascoltato in un contesto pacifico e democratico, di preferire il dialogo alle armi, utilizzate solo perché fosse finalmente udita la voce dei condannati all’oblio, di quanti, per l’economia e la politica ufficiali, semplicemente non esistevano. E chi sta rilanciando la politica pacifica, ancora oggi, è l’E.Z.L.N. Ne è dimostrazione lampante la Quarta Dichiarazione della Selva Lacandona (1 gennaio 1996) nella quale la strada del confronto civile viene ulteriormente concretizzata dalla costituzione di un’organizzazione politica e disarmata, il Fronte Zapatista di Liberazione Nazionale, che aspira non alla toma del poder (presa del potere), ma alla costruzione di uno spazio democratico permanente, che possa essere strumento di partecipazione dal basso e di controllo verso l’alto, verso chi governa, obbligandolo a mandar obedeciendo (comandare obbedendo) come è pratica comune nelle comunità indigene.

La sfida
La sfida è aperta. Per qualcuno tutto ciò è utopia. Ideale irrealizzabile. Eppure Canek, se ricordo bene, diceva anche che: «…L’uomo di questa terra deve essere più esigente e più umano, deve cercare la realtà migliore, la possibile, quella che matura tra le sue mani. Questo sarà come vivere il vero ideale della realtà».

Dalle montagne del sudest messicano
Ci rende fratelli un ordine mondiale che distrugge nazioni e culture. Il grande criminale internazionale, il denaro, oggi ha un nome che riflette l’incapacità del Potere di creare cose nuove.
Stiamo soffrendo oggi una nuova guerra mondiale. Si tratta di una guerra contro tutti i popoli, l’essere umano, la cultura e la storia. È una guerra capitanata da un pugno di centri finanziari senza patria e senza vergogna: il denaro contro l’umanità. «Neoliberismo» chiamano ora questa internazionale del terrore. Il nuovo ordine economico internazionale ha già provocato più morte e distruzione delle grandi guerre mondiali. Ci siamo fatti più poveri e più morti, fratelli.
Ci rende fratelli l’insoddisfazione, la ribellione, la voglia di fare qualcosa, l’anticonformismo. La storia che il Potere scrive ci ha insegnato che avevamo perso, che il cinismo e il guadagno erano virtù, che l’onestà e il sacrificio erano stupidi, che l’individualismo era il nuovo dio, che la speranza era una moneta svalutata, senza quotazione sui mercati internazionali, senza potere d’acquisto: speranza senza speranza!
Non abbiamo appreso la lezione. Siamo stati cattivi alunni. Non abbiamo creduto in ciò che il Potere insegnava. Abbiamo marinato la scuola quando in classe si insegnava il conformismo e l’idiozia. Siamo stati bocciati in modernità. Condiscepoli in ribellione, ci siamo incontrati e ci siamo scoperti fratelli. Ci rende fratelli l’immaginazione, la creazione, il domani.
Nel passato non abbiamo visto solo la sconfitta, ma abbiamo anche trovato desiderio di giustizia e il sogno di essere migliori.
Abbiamo lasciato lo scetticismo appeso all’attaccapanni del grande capitale ed abbiamo scoperto che potevamo credere… in noi stessi. (dalla lettera di Marcos, indirizzata agli uomini e alle donne in solidarietà con il Chiapas)