“Amistad” di Steven Spielberg
Un grande film, di un grande regista, da rivedere, da studiare. Per risalire alle origini della schiavitù africana in America, per riscoprire le radici dello sfruttamento. Una storia vera: un processo ad un gruppo di africani che si sono ammutinati sulla nave (l’Amistad) che li conduceva schiavi verso Cuba e gli Stati Uniti.
Il processo diventa il palcoscenico dove ognuno gioca il suo ruolo: la giustizia degli Stati Uniti, gli interessi dei negrieri, i trattati internazionali tra Spagna e Stati Uniti, l’ambizione del presidente che vuole essere rieletto, il movimento per i diritti civili che non disdegnerebbe un po’ di martiri…
In mezzo loro, gli africani in catene, che devono capire che cosa stia succedendo, una lingua diversa, gesti e leggi, facce che sembrano tutte ostili. E un giovane avvocato che sa di dover dimostrare non il diritto alla liberazione dalla schiavitù, ma la provenienza degli imputati da uno Stato dell’Africa e quindi la condizione di nati in libertà e non soggetti alle leggi della proprietà, come gli altri schiavi d’America.
Quanti passi deve fare un uomo per arrivare alla libertà? Quante lingue deve interpretare per arrivare a comprendere le leggi dei popoli civili che lo tengono in catene?
Con una intuizione geniale il regista pone sulle labbra del giudice che difende la causa degli africani davanti alla Corte Suprema, le parole del protagonista nero che gli sta davanti: “Noi siamo l’ultimo anello della catena che risale ai nostri antenati” diventa lezione di alta cultura giuridica per i giudici statunitensi: fare appello agli antenati (i padri fondatori degli Stati Uniti) e fare un passo avanti nel solco della tradizione per portare a compimento l’evoluzione del diritto.
L’ottimismo di Spielberg diventa materia per un grande spettacolo, sempre ad elevato contenuto culturale. Forse che nessuno è libero finché un pezzo di umanità non è libero? O che di carne e sangue e lacrime (altrui) è impastata l’evoluzione dei popoli liberi?
Davvero grandi interrogativi per un grande regista.
Forse Macondo potrebbe stimolare la visione e la discussione di opere di questo livello presso le scuole o altri luoghi (magari in sede stessa) come situazione didattica più efficace delle lezioni (o delle prediche)…
La scelta di proporre una riflessione sull’Africa, partendo dalla visione di un film, ha molte implicazioni: formative, culturali, politiche, organizzative.
Il narcisismo dell’uomo bianco che si pone in discussione trova uno specchio allegro nella visione di opere come Amistad che rovesciano il ruolo dei protagonisti: chi insegna a chi, chi difende chi?
Siamo noi che restituiamo la libertà o loro che ci provocano a liberarci dalle nostre leggi, che inevitabilmente sono fondate sul diritto di proprietà, sul mantenimento della nostra struttura economico- sociale?
Ma mi rendo conto di cominciare a filosofeggiare senza che immagini e suoni e colori siano davanti agli occhi e alle altre finestre del corpo, che vive imprigionato nella stiva delle nostre culture…