Alle radici dell’eurocentrismo
La nostra storia, di noi occidentali moderni, nasce in America latina; è là che dobbiamo frugare per ritrovare noi stessi, le radici del nostro esasperato eurocentrismo, della nostra radicata presunzione.
Sì, là in Peù, a Cuzco, dove mi hanno affidato in adozione una stupenda bambina dagli occhi a mandorla, là ho vissuto il senso della differenza e della parentela profonda che ci lega, là ho tentato di rimettere ordine nella mia storia, di là sono ripartito per esplorare quel mondo da cui provengo. Il mio soggiorno in Peù è durato quaranta giorni, di cui circa trenta a Cuzco.
Cuzco, cultura ibridata
Cuzco, città malinconica, adagiata placidamente, sotto un cielo spesso grigio, per chilometri in una conca a 3400 metri di altezza; mano a mano che prendi confidenza con l’altitudine e le forze che ti rimangono ti consentono anche di pensare, ti rendi conto che a Cuzco i luoghi e la gente ti parlano di una cultura ibridata il cui fondo rimane opaco ai tuoi occhi mentre lo scenario che l’accompagna, i paludamenti che essa veste ti sono assai noti.
I resti della civiltà incaica si sono come mimetizzati: nella piazza centrale è un’esplosione di chiese costruite in stile spagnolo; e sono queste ed altri edifici costruiti dagli spagnoli a dare l’impronta alla città. Le vestigia della antica civiltà incaica sono come emarginate fuori della città, oppure rimangono nascoste, occultate dagli edifici fatti costruire sopra di esse dopo la conquista. Quelle chiese imponenti sembrano delimitare naturalmente la plaza de armas, integrata da sempre nello stupendo scenario della vallata verdeggiante, sembrano appartenere da sempre alla cultura peruviana: è difficile immaginare una diversa sistemazione dello spazio. Quelle chiese tuttavia furono pensate in origine non come un innesto positivo, ma come una pietra tombale riversata senza pietà su una diversa cultura.
Sepolta sotto la civiltà europea
Prima di ritornare in Italia, io e mia moglie, visitammo ciò che è rimasto del tempio del Sole; ci stupimmo come ogni bravo turista, di fronte alle sue colonne squadrate e poderose, ammirammo il richiamarsi perfetto degli spazi vuoti, il giardino che le cronache dell’epoca descrivono disseminato di sagome floreali d’oro; la nostra guida ci conduceva con abilità a ricostruire nell’immaginazione quel mondo scomparso nel giro di qualche decennio non perché corroso dall’interno, o perché la natura ostile ne avesse decretato la fine, ma perché una diversa civiltà aveva pensato bene di seppellirlo. La nostra guida con una punta di amarezza ci faceva notare come il giardinetto esterno e vari alti edifici erano stati letteralmente sepolti dagli Spagnoli sotto quintali di terra, nascosti e sopra vi avevano costruito le loro chiese; i terremoti del XVIII secolo avevano poi fatto crollare alcune parti dei nuovi edifici e riportato alla luce le fondamenta e le mura di quelli antichi.
La scoperta dell’altro
affidata ad avventurieri
È difficile non avvertire la violenza che accompagnò quell’incontro tra due diverse culture: la volontà degli uomini venuti dall’Europa di sviluppare una comunicazione con gli altri sradicandoli dalla propria terra, rendendoli identici a se stessi, quasi che solo fra identici fosse possibile sviluppare discorsi, intrattenere scambi, costruire mondi in comune.
L’incontro con le civiltà dell’America latina, con gli indios, all’inizio del cinquecento fu un evento capitale per il mondo europeo e per disgrazia di quelle popolazioni, la cultura europea arrivava impreparata a quell’appuntamento: quell’incontro costituisce una “storia esemplare” della tortuosità del cammino che porta alla “scoperta dell’altro”. Spesso questo rapporto venne affidato ad avventurieri che portavano con sé, oltre ad una smisurata sete di ricchezza, un patrimonio di categorie interpretative elementari.
Gli indios, al più
oggetti di curiosità
Per Cristoforo Colombo gli indios erano un popolo senza storia, una pagina bianca su cui era responsabilità degli spagnoli scrivere per la prima volta la parola cultura, religione, salvezza. Gli indios “fanno parte del paesaggio”, sono oggetto al più di curiosità, come fossero piante esotiche mai viste prima; Colombo non è preoccupato minimamente di capirli, di intenderne la lingua, di conoscerne le usanze, è tutto proteso almeno all’inizio ad assimilarli alla sua cultura, proiettando le proprie convinzioni e valori su di essi: egli si aspetta che docilmente essi abbraccino la dottrina religiosa che viene loro impartita, perché non posseggono alcun valore religioso. Rimane perciò sconcertato quando assiste ad atti di ribellione: a questo punto è pronto ad ammettere la loro diversità, ma anche la propria superiorità e a servirsi di ogni mezzo di coercizione per ricondurre gli indios a quei valori universali di cui egli si fa portatore e difensore. Ed è questa convinzione, che esistono valori universali, testimoniati dalla cultura occidentale, che guida Colombo, i conquistadores e i colonizzatori europei nella costruzione di un rapporto con l’altro.
La religione cristiana
è l’unica
È vero che tra Colombo e Cortès esiste un diverso riguardo per il problema della comunicazione con gli indios: Cortès è molto più attento agli strumenti che consentono di penetrare nel mondo chiuso, rituale, tradizionale degli Aztechi, a partire dalla conoscenza della lingua, ma anche per lui come per gli altri le categorie di riferimento sono modellate sullo schema dell’universalismo cristiano.
La religione è una, “il Dio cristiano non è un’incarnazione che possa aggiungersi alle altre: esso è uno, in modo esclusivo e intollerante e non lascia alcuno spazio ad altri dei” (Todorov, p.130), solo all’interno della chiesa vi è salvezza. Da ciò consegue la responsabilità nei confronti dell’altro di salvarlo dall’errore. La dottrina cattolica dona alla conquista le giustificazioni di fondo, offre missionari al seguito dei conquistadores, punti di riferimento categoriali e culturali.
Sant’Agostino diventa per molti la bussola di orientamento: è il Sant’Agostino che tuona contro i donatisti: “Contra voluntatem tuam, sed propter salutem tuam”, il Sant’Agostino preoccupato delle sorti della chiesa e che ritiene pericoloso indulgere ad atteggiamenti di tolleranza verso dissenzienti.
I missionari che sbarcarono nel nuovo mondo portavano con sé il vecchio, tenendoselo ben stretto, quale filtro indispensabile per leggere quella realtà, nel caso speciale in cui fossero intenzionati a comprenderlo.
Il filtro letale
La storia di quel rapporto è in realtà in quelle cifre – verso la metà del XVI secolo di 80 milioni di abitanti ne rimangono solo 10 – che parlano di una catastrofe demografica spaventosa. “Se c’è un caso in cui si può parlare, senza tema di smentita, di genocidio, è proprio questo” (Todorov).
Ancora a lungo la cultura occidentale rimarrà ancorata all’idea che comprendere non equivalga ad accettare l’altro nella sua differenza come dono e arricchimento. Nel seicento e settecento si continueranno a trarre motivi, temi di riflessione politica e filosofica dal mondo degli indios; ma il “selvaggio” verrà strumentalmente idealizzato, trasformandosi in categoria utile a scardinare i pregiudizi e le ingiustizie dell’ancien regime.
Le differenze
oggetto di studio
È con il XIX secolo che attraverso le inchieste sul campo, si incominciano a studiare le usanze, i costumi, le tradizioni dei popoli “diversi”, allo scopo di fornire utili notizie ai missionari, ai coloni impegnati a svolgere i propri ruoli nei territori conquistati: le differenze diventano oggetto di studio. Ma è solo con gli studi antropologici più recenti che la differenza non sarà più motivo di giudizi discriminanti, e si affermerà l’idea che esistono molte culture quante sono le risposte che sono state date e si danno alle sfide che vengono dall’ambiente, dalla storia, risposte originali perché diverse sono le soluzioni ai problemi, diversa la combinazione dei valori “che sono approssimativamente gli stessi per tutti gli uomini: tutti gli uomini infatti senza eccezione posseggono un linguaggio, delle tecniche, un’arte, delle cognizioni di tipo scientifico, delle credenze religiose, una organizzazione sociale, economica e politica. Ebbene questo dosaggio non è mai esattamente lo stesso per ogni cultura…” (C.Levi-Strauss, Razza e storia, Einaudi, 1967).
Concludendo sul preconcetto
Vorrei concludere queste schematiche considerazioni intorno alle questioni che hanno inciso nella formazione della nostra identità, esprimendo l’opinione che oggi è diventato quanto mai urgente riprendere tale discorso, approfondirlo in modo più articolato, alla luce della sfida che l’Europa subisce al proprio interno dalle culture “altre”; è indispensabile impostare in modo efficace anche dal punto di vista dei rapporti individuali e di gruppo il tema dell’eguaglianza e della differenza, cercando di superare il preconcetto che vi sia inconciliabilità tra i due termini.