Alla ricerca di un diritto allo sviluppo

di Santarelli Elvezio

La letteratura giuridica ha incentrato per anni le proprie attenzioni sulle problematiche inerenti i paesi industrializzati ed i cosiddetti paesi in via di sviluppo.

Due domande

Due le grandi domande su cui il dibattito si è focalizzato: esiste un diritto internazionale disciplinante le relazioni tra paesi poveri e paesi ricchi? Esiste uno specifico diritto internazionale allo sviluppo in favore dei paesi del sud del mondo nei confronti dei paesi industrializzati?
I migliori giuristi internazionali, ed in special modo la dottrina francese, hanno elaborato molteplici studi fin dagli inizi degli anni ’60.
Cercheremo, quindi, di raccogliere in via di estrema sintesi, i punti centrali, fondamentali della loro analisi.

Interdipendenza Nord-Sud

Durante il processo di decolonizzazione agli inizi degli anni ’60, secondo tali autori, si è verificata una netta trasformazione politico-giuridica nelle relazioni internazionali all’interno della comunità mondiale. In quel periodo si percepirà, infatti, l’emergenza sottosviluppo e la presenza, nell’ambito della comunità internazionale, di nuovi Stati i quali non potranno più essere considerati come diseguali di fatto.
Tutto ciò non tanto per ragioni di carattere morale, ma in quanto e soprattutto per motivazioni di opportunità e convenienza politica ed economica degli stessi paesi industrializzati. Maturerà, cioè, con il tempo, il concetto di interdipendenza nelle relazioni internazionali tra il Nord ed il Sud del mondo.

L’autonomia interdipendente
dei paesi in via di sviluppo.
Le preoccupazioni del Nord

Da una parte i paesi in via di sviluppo supereranno le rigide impostazioni che, guardando alle teorie di sviluppo di tipo liberal-capitalistico come causa principe del proprio sottosviluppo, auspicavano la chiusura a qualsiasi forma di reciproca relazione di cooperazione, e adotteranno invece la cosiddetta politica dell’autonomia interdipendente, adottando diverse forme di negoziato (vedi OPEC, Gruppo dei 77, Movimento dei non allineati).
Nel contempo, anche il Nord industrializzato prenderà coscienza del problema del sottosviluppo, considerando le eventuali conseguenze che lo stesso avrebbe potuto portare e di fatto portava indirettamente nei loro confronti. L’esigenza delle materie prime inizialmente, i grandi movimenti migratori, la diffusione delle malattie tropicali, della criminalità, della droga, dei conflitti sociali, l’ambiente successivamente, costituiranno stimolo di ricerca per i paesi ricchi ad un assetto di relazioni internazionali che consenta ai paesi in via di sviluppo di entrare in maniera più attiva e determinante all’interno dei mercati internazionali.

La dottrina francese del
diritto internazionale dello sviluppo

All’interno di questo riassuntivo quadro storico-sociologico, la dottrina francese intravede la crescita e l’evoluzione di un diritto internazionale dello sviluppo (DIS), delineandone gli specifici aspetti.
Dupuy definirà il DIS come una “banalità formale”, per dire che le fonti da cui tale diritto scaturisce nel corso di questi anni sono le stesse del diritto internazionale classico, e cioè la consuetudine, i trattati, la giurisprudenza, le risoluzioni delle organizzazioni internazionali.
Al contrario, ciò che contraddistinguerà il DIS sarà la propria sostanza, il proprio contenuto, o meglio, per dirla come loro, la finalità. Le norme costituenti il DIS saranno cioè caratterizzabili dal fatto di essere tutte dirette alla ricerca di un sistema internazionale interdipendente sempre più, aperto alle esigenze di mercato dei paesi in via di sviluppo.

Cooperare nella disuguaglianza

In definitiva, dal momento della decolonizzazione ad oggi, la comunità internazionale, prendendo coscienza del problema del sottosviluppo tenderà a risolverlo nell’ambito di una impostazione rostowiana liberal-capitalistica, che vede la crescita economica dei paesi in via di sviluppo come conseguenza della crescita dei paesi industrializzati, alla quale i primi avrebbero dovuto relazionarsi in un comune processo di cooperazione.
Il diritto internazionale dello sviluppo è, quindi, per la dottrina francese, il diritto che gestisce tali tipi di relazioni e di cooperazione.

Sovranità politica e sovranità
economica: le disuguaglianze

Quali le conseguenze di questa impostazione?
Sicuramente un’inevitabile evoluzione dei principi di eguaglianza e di sovranità all’interno del diritto internazionale classico.
Nella storia del diritto internazionale, la sovranità è sempre stata intesa essenzialmente in senso politico. Nel momento in cui esiste una certa comunità di persone, gestita da un governo, nell’ambito di un determinato spazio territoriale, il diritto internazionale classico ha infatti sempre riconosciuto la sovranità a tale entità.
Nel contempo, tutti i raggruppamenti sociali che avessero tali caratteristiche, essendo ritenuti sovrani, saranno considerati, indipendentemente dalle singole e specifiche situazioni economiche, formalmente eguali dal diritto internazionale classico.
È evidente quindi che, nel momento in cui, per le ragioni in precedenza esposte, verrà acquisito nell’ordinamento internazionale la categoria della disuguaglianza economica, la Sovranità e l’Eguaglianza acquisiranno una connotazione del tutto nuova.

Nuova carta di identità
dello Stato: popolo e ente di sviluppo

Lo Stato non sarà più solamente tale in quanto composto di popolo, territorio e governo, ma in quanto ente di sviluppo. Come tale, nel quadro di una economia interdipendente necessiterà della cooperazione internazionale proprio al fine di essere pienamente un ente di sviluppo e quindi essere pienamente sovrano e godere della piena eguaglianza.

Proclamazione di un diritto
internazionale dello sviluppo

Nello schema tracciato, la dottrina francese riesce anche a far emergere in senso positivo la risposta all’altra domanda inizialmente propostaci relativa all’esistenza, nell’ordinamento internazionale, di un vero e proprio diritto allo sviluppo in favore dei paesi in via di sviluppo nei confronti dei paesi industrializzati.
Non è tanto attraverso le grandi risoluzioni delle organizzazioni internazionali, essi dicono, che possa affermarsi l’esistenza di un diritto internazionale allo sviluppo, non avendo le stesse un valore vincolante. Esso va costruito come un principio base, una specie di norma fondamentale del sistema del diritto internazionale allo sviluppo.
È un diritto di cui è necessario affermare l’esistenza, altrimenti tutte le normative internazionali inerenti la cooperazione (principi di non reciprocità, sistemi preferenziali, sovranità sulle risorse ed attività economiche), nonché tutte le norme sui diritti dell’uomo (dichiarazione del 1948, patti sui diritti economici e sociali del 1966, ecc.) non avrebbero un effettivo e reale valore.

Tra teoria e prassi:
il salto critico

Fin qui l’analisi francese. Essa contiene sicuramente degli argomenti interessanti in favore dell’affermazione di un diritto internazionale allo sviluppo per i paesi poveri.
Ciò che però può lasciare in parte perplessi è la notevole teoricità ed astrazione nel ragionamento seguito dai giuristi francesi. È inoppugnabile che il tutto si riveste comunque di notevole valore, ma rimane pur sempre il dubbio che ciò che ha reale forza all’interno del diritto internazionale sia la prassi.
Percorriamo quindi questa strada alternativa per cercare di porre ancor più solide fondamenta alle conclusioni cui la dottrina francese è pervenuta.

La consuetudine come forma
vincolante di diritto

Una delle più importanti fonti di diritto internazionale è la consuetudine. Dice la Corte Internazionale di Giustizia che, dinanzi ad una “prassi generale, accettata come diritto”, l’ordinamento internazionale acquisisce tale prassi come diritto.
Per aversi quindi una consuetudine giuridica è necessaria la presenza di un comportamento reiterato da parte degli Stati all’interno della comunità internazionale (c.d. diuturnitas) ed una specifica volontà da parte degli Stati medesimi di considerare quei comportamenti come giuridicamente vincolanti (c.d. opinio iuris).
Ora a noi sembra che nell’ambito della prassi giuridica internazionale possa configurarsi la presenza di un diritto internazionale allo sviluppo che possa essere effettivamente vantato dai paesi in via di sviluppo.

La prassi internazionale:
i dati

Il primo elemento, la c.d. diuturnitas, è, infatti, rintracciabile, all’interno della prassi internazionale in cinque importanti elementi:
1) l’esistenza e l’azione dell’OCSE.
L’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione economica riunisce i ventiquattro paesi più industrializzati del pianeta fin dal 1961 con lo scopo, tra l’altro, di coordinare la cooperazione bilaterale nell’ambito dell’aiuto pubblico allo sviluppo, incentrando la propria attività essenzialmente nell’ambito della mobilitazione finanziaria. Così dai 34,7 miliardi di dollari degli anni ’70, essa ha raggiunto i 54 miliardi di dollari del 1990;

2) l’esistenza e l’azione della Banca Mondiale.
Anch’essa incentra la propria azione negli apporti finanziari, attraverso le varie vie di prestito, infrastrutturale, strutturale ecc. ai paesi in via di sviluppo. Nel 1993 la Banca Mondiale ha prestato 5921,3 milioni di dollari con l’aggiunta dei 4035 milioni dell’I.D.A. (Agenzia di Sviluppo Internazionale);

3) l’esistenza e l’azione del Fondo Monetario Internazionale.
Organizzazione creata a Bretton Woods nel 1948 con funzioni inizialmente di equilibratore e stabilizzatore sistema dei tassi di cambio internazionali, essa è divenuta successivamente alla fine del Gold Exchange Standard un vero e proprio ente di erogazione finanziaria in favore essenzialmente dei paesi in via di sviluppo. Dal 1953 al 1958, infatti, la media richiesta di emissioni dei paesi industrializzati è stata del 2%, mentre per i paesi in via di sviluppo è stata del 18%, diventando fino al 1992 del 70% e mai scendendo sotto al 17%. L’apporto finanziario ha avuto negli anni un incremento pari a 15 miliardi di dollari.

4) l’azione operativa del sistema delle Nazioni Unite per lo sviluppo.
Notevole è il numero delle organizzazioni internazionali che, agendo da executive agencies in collegamento con le Nazioni Unite ed in particolare con il programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, svolgono la loro azione proprio in relazione alle problematiche del sottosviluppo (così FAO, WHO, ecc,);

5) azione del WTO.
Il World Trade Organization (Organizzazione Mondiale per il Commercio) ha svolto negli ultimi anni un’azione in favore di una maggiore incisività dei paesi in via di sviluppo all’interno dei mercati internazionali. In questa direzione si è mosso l’Uruguay Round. Così, innanzitutto, i paesi in via di sviluppo hanno in tale incontro aumentato notevolmente il numero delle proprie presenze, considerando che dei 107 partecipanti, 78 erano paesi poveri. È stata inoltre ribadita la parte IV della modifica del trattato GATT e quindi i principi di non reciprocità e di preferenza in favore dei paesi in via di sviluppo. Così si sono affermati i provvedimenti concernenti la riduzione del 38% dei dazi doganali sui prodotti industriali e del 30% sui prodotti agricoli.

Consuetudine internazionale:
l’opinio juris

Per quanto attiene all’altro elemento caratterizzante la consuetudine internazionale che stiamo cercando e cioè l’opinio juris, ci sembra essa sia rintracciabile in altrettanti cinque punti:

1) gli Stati OCSE in sede di Comitato di Aiuto per lo Sviluppo hanno esplicitamente preso la seguente posizione: “L’interdipendenza tra i paesi sviluppati e i paesi in via di sviluppo, interdipendenza che si accentua rapidamente, è una caratteristica fondamentale del mondo contemporaneo. È ammesso dopo molto tempo che le politiche dei paesi industrializzati debbano indirizzarsi verso la soluzione dei problemi di portata planetaria, come quello dell’ambiente, delle migrazioni, del debito estero, della popolazione, dell’AIDS, del traffico di droga e che si operi una transazione politica ed economica ordinata all’interno delle numerose regioni del globo. Ora, queste condizioni fondamentali non possono essere realizzate senza un lavoro politico, economico e sociale maggiore e senza che i paesi in via di sviluppo siano maggiormente integrati nel sistema mondiale”.
Ciò risulta chiaramente di notevolissima importanza sia per la palesità che per la fonte da cui provengono, e cioè la più grande organizzazione dei paesi industrializzati.

2) il grande numero delle organizzazioni internazionali operanti nel campo dello sviluppo. Come la già citata OCSE, la Banca Mondiale, l’Associazione Internazionale per lo Sviluppo, la Società Finanziaria Internazionale, il sistema delle Nazioni Unite per lo sviluppo, l’UNPD e le moltissime organizzazioni internazionali che fungono da istituti specializzati delle Nazioni Unite. Tutto ciò non può nascondere una volontà importante, specifica, degli Stati componenti la Comunità internazionale di porre in essere degli strumenti diretti alla risoluzione del problema.

3) L’elemento integrazione inteso come la necessità di una maggiore e più incisiva integrazione dei paesi in via di sviluppo all’interno del mercato internazionale è stato ribadito in moltissime occasioni.

4) Le dichiarazioni di principio dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite affermanti il diritto allo sviluppo. Esse, seppure non abbiano valore vincolante, possono comunque essere utili per rintracciare una volontà generale della comunità internazionale. Ad esempio, la dichiarazione 41/133 del 1986, intitolata proprio Il diritto allo sviluppo, è stata approvata con 146 voti favorevoli, 1 contrario e 8 astensioni.

5) La Conferenza di Rio de Janeiro sull’ambiente e lo sviluppo. Essa ha ribadito il diritto allo sviluppo in favore dei paesi in via di sviluppo sia al principio 1 della dichiarazione, sia all’art. 5, considerandolo elemento imprescindibile.

Concludendo

Quali le conclusioni che si possono trarre da tutto ciò?
In definitiva, ci sembra di poter propendere per l’affermazione di un diritto internazionale allo sviluppo in questa ricostruzione fondata sulla ricerca di una prassi internazionale che ci mostra una diuturnitas ormai riccamente affermata ed una opinio juris che è supportata da una notevole quantità di casi facenti soprattutto capo a quelli che ormai sono considerati i soggetti internazionali per eccellenza, e cioè le Organizzazioni internazionali.
È inoltre da ribadire che seppure tale opinio juris venga di fatto ostacolata da alcuni importanti Stati quali gli USA, la Gran Bretagna o alcuni Stati dell’Unione Europea, ciò non inficia in termini numerici la possibilità di considerare l’esistenza di una consuetudine internazionale valida a tutti gli effetti.
Un diritto internazionale allo sviluppo in favore dei paesi in via di sviluppo sembra quindi, anche nella strada diversa da noi seguita, ormai affermabile come presente all’interno dell’ordinamento internazionale.
Tutto ciò perché è ormai la stessa intera comunità internazionale a volere un’economia interdipendente, una forte relazione internazionale tra le proprie componenti, una spiccata cooperazione economica.
Sembrerebbe quindi che i paesi in via di sviluppo abbiano vinto la loro battaglia e possano farsi riconoscere nell’ambito internazionale un vero e proprio diritto ad esistere, svilupparsi, ad essere di fatto eguali agli altri Stati.

Domanda discriminante

Ma è proprio questo il diritto per il quale i paesi in via di sviluppo hanno combattuto per anni?
Seppure in tutti gli atti internazionali mai sia sorta una definizione di quale fosse lo sviluppo che la comunità internazionale sembra concedere anche giuridicamente ai paesi in via di sviluppo, sembra evidente, sia per l’analisi da cui muove la dottrina francese, sia per il modo in cui si articola l’azione delle grandi organizzazioni internazionali, che per sviluppo nella comunità internazionale debba intendersi la logica di sviluppo liberal-capitalistica.
Ma allora, è proprio questo lo sviluppo che l’ampia battaglia giuridica internazionale ha ricercato negli anni?
È quindi un vero bene o, peggio, un danno per i paesi in via di sviluppo aver ottenuto, come a noi sembra, il riconoscimento internazionale di un proprio diritto?
Difficile dirlo. Il dibattito è aperto.