Africa assente, Africa silenziosa
L’idea di considerare l’Africa come il “continente assente” è radicata da secoli in Occidente.
“Terra incognita”, il territorio dell'”Hic Sunt Leones”, il “cuore di tenebra” sono altrettante espressioni che tendono a designare un oggetto oscuro, a tratti misterioso, ma comunque affascinante e minaccioso. Tanti si sono esercitati, nel passato remoto e recente, nell’esercizio mentale tutto eurocentrico di rafforzare e di fondare concettualmente e “scientificamente” la totale e radicale estraneità dell’Africa alla storia umana finendo per contribuire alla sedimentazione di pregiudizi e cliché ancora vivi nell’inconscio collettivo europeo. Uno dei più autorevoli teorici di queste inezie filosofiche fu proprio il grande Hegel che divideva l’umanità in popoli storici e popoli non storici; i primi sarebbero stati i motori del progresso civile e gli altri fruitori passivi di una non-storia costituita da accadimenti accidentali, senza finalità logicamente decifrabili. Hegel postulava, ripreso in questo da storici più recenti, che la civiltà umana sarebbe nata in Asia per irradiarsi da li in Europa. L’Africa, senza storia ne cultura, poteva solo giovarsi della “missione civilizzatrice” gentilmente e cristianamente concessagli dall’Europa trionfante.
Oggi, queste teorie di Hegel e compagni avrebbero molte difficoltà ad essere sostenute. L’Africa è il continente dove avvenne tanti millenni fa lo sviluppo umano. Nel suo suolo sono stati rinvenuti gli oggetti relativi a tutti gli stadi dello sviluppo dell’uomo: Australopiteco, Pitecantropo, uomo di Neanderthal e Homo Sapiens. Africa culla dell’umanità, quindi, ma anche culla di grandi civiltà (civiltà Swahili nell’Africa orientale, i regni Ashanti, del Mali, del Kongo; quelli di Kush, di Axum, dell’Egitto…ecc) e di grande esperienze che hanno segnato la storia dell’umanità. Nemmeno le teorie basate sulla biologia (vedi per esempio le farneticazioni pseudo-scientifiche del conte Joseph de Gobineau) hanno maggiore successo non solo perché inconsistenti ma perché il concetto-base sul quale si fondavano ossia il concetto di razza è oggi seriamente minacciato. Sembra ch’esista scientificamente una sola razza, la razza umana diversificata seguendo linee di sviluppo condizionate da fattori ambientali. Cade, così, un altro presupposto in base al quale si stigmatizzava l’assenza dalla storia dell’uomo africano: quella convinzione radicata secondo la quale “lasciate a se stesse, le popolazioni africane non sarebbero mai stato in grado di progredire, tanto meno di prosperare. La cultura africana non aveva alcuna capacità di automigliorarsi, perché a mancare erano i requisiti morali e le qualità intellettuali. Questa era quel che si andava ripetendo, con una tale insistenza che infine si convinsero anche le persone intelligenti. Si chiedeva che agli europei fosse consentito di portare in Africa, anche con la violenza se necessario, quel che la natura lì aveva negato” (Basil Davidson, La Civiltà africana, Einaudi, 1972; 1997)
L’Africa attuale sembra assente agli occhi degli stessi giudici eurocentrici a causa di un altro criterio discriminante che ha soppiantato le vecchie teorie dell’esclusione basate sulla filosofia, la storia e la biologia. Si tratta del criterio economicistico secondo il quale il cumulo quantitativo di beni e servizi e la conseguente partecipazione attiva alla sagra consumistica sarebbero diventati gli unici parametri di valutazione della presenza e/o assenza nella storia drasticamente ridotta a mera storia di oggetti materiali o di servizi prodotti o scambiati. Il volume più o meno alto, scrupolosamente misurato di partecipazione al commercio mondiale decreta l’essere o il non-essere; la consistenza o l’inconsistenza umana individuale e collettiva. Con questi criteri, gli afro-pessimisti militanti della fine degli anni ’80 affermarono che il volume degli scambi commerciali africani con il resto del mondo era così insignificante che l’Africa poteva scomparire dalla faccia della terra senza arrecare il minino danno.
Il paradosso è che gli stessi europei si sono battuti al momento del rinnovamento degli Accordi sul commercio mondiale per escludere i prodotti culturali dalla fiera globalizzata sotto la ferrea regola della deregulation. “Exception culturelle” richiesta per salvaguardare le culture e le identità specifiche che erano considerati valori non alienabili e scambiali sull’altare del profitto universale e totalizzante.
È proprio dalla cultura che l’Africa trae linfa per rifiutare l’omologazione e rispondere a quelli che ne profetizzano il silenzio e l’insignificanza storica. Essa, seppure violentata e deturpata da secoli di dominio, di oppressione e di sfruttamento selvaggio ha ritrovato quarant’anni fa il “sole dell’indipendenza” che significa ripresa in mano del proprio destino. Un destino dall’eredità storica pesante ma anche esaltante. Un destino che segue da decenni i sentieri impervi della ricerca di un modello politico compatibile con le peculiarità dei singoli stati che la compongono; un destino che si edifica sulle strutture economiche mondiali segnate dall’inequità e dal cinismo calcolatore di una parte dell’umanità accanitamente preparata a mantenere e conservare il più a lungo possibile i propri privilegi; un destino che si cerca tra le tragedie che sconvolgono ciclicamente parti consistenti del suo territorio; un destino, infine, tutto da inventare ma che rivendica il diritto all’errore e il rispetto di processi lenti il cui esito viene necessariamente affidato alla paziente verifica del tempo.
E solo il tempo ci dirà se l’Africa sarà presente o assente. Una cosa è sicura, l’ipotizzata e assurda assenza dell’Africa non potrebbe giovare alla salute dell’organismo mondo che ha bisogno di tutte le sue membra.