Copenaghen e l’arte di tenersi per mano
Semplicemente bella
Di Copenaghen conservo un ricordo solare e trasparente. Si è trattato di una parentesi semplicemente bella.
Se io dovessi definire questa città attraverso un avverbio di modo e un aggettivo qualificativo, userei le parole che ho appena usato: semplicemente bella.
Confido di avere un grande bisogno di semplicità e di bellezza, in un tempo in cui la complicazione e l’oscurità si intrecciano affannosamente nelle nostre vite.
Copenaghen è stata uno squarcio di sole radioso e un respiro intirizzito per un freddo che ha costituito per me una ventata salutare e gioiosa. Non sempre il freddo viene per infastidire o per rattristare; a volte arriva come uno scroscio di acqua fresca, aprendo le cateratte di un mondo ansiosamente raccolto e in attesa di prorompere.
Il vento di Copenaghen mi ha ricordato l’acqua gelata delle rapide dell’Iguaçu.
Ci si rovescia dentro come bambini che giocano nella neve, ci si diverte di un divertimento puro. In fin dei conti si accoglie a pieni polmoni il soffio della vita che sgorga senza censure.
Copenaghen per me è un’unica fotografia stampata nella memoria. La ricordo ancora distintamente, colore dopo colore, dettaglio dopo dettaglio.
Un atto di intimità appena osato Vicino al Palazzo Reale di Amalienborg, poco prima del cambio della guardia di mezzogiorno, ho incontrato una famiglia biondissima, giovane e fresca. Il bimbo se ne stava placidamente addormentato e imbacuccato in un passeggino, mentre la sorellina più grande camminava tenendo per mano la madre. Poi lei e lui, i genitori, si tenevano per mano. O forse no, non è proprio esatto dire che si tenessero per mano.
Accarezzavano i loro cuori, appoggiando dolcemente le loro dita e i loro palmi sulle dita e sui palmi dell’altro e dell’altra.
Tenersi per mano è un’arte e loro erano gli attori protagonisti di un atto di intimità appena osato.
Copenaghen è questo: un atto di intimità appena osato. È una città tenue, rispettosa, ordinata, civile e rassicurante. L’ho sperimentato immediatamente dall’incontro con gli addetti alle biglietterie dei musei: «Thank you». Ogni volta in cui mostravo la mia carta d’ingresso, mi ringraziavano. Mi dicevano grazie, capite? Dopodiché io capivo di avere ricevuto il rispetto che meritavo. Nessuno ha mai invaso il mio spazio, così come nessuno ha mai dato l’impressione di osservare, di scrutare, di giudicare.
Copenaghen associa la misura della vita dei suoi abitanti all’austerità silenziosa e contemplativa delle sue chiese luterane. In questo senso esprime al meglio lo spirito più autenticamente moderno della Riforma: tollerante ed essenziale, rigorosa e comprensiva, ma soprattutto rispettosa della libertà individuale.
Qualche ottuso del mio Paese, disturbato da una presunzione falsamente cattolicheggiante, è giunto a dirmi che nell’Europa del Nord non hanno più cristiani. Mi permetto di contestare civilmente un argomento vuoto e soprattutto ingiustificato. Nel rispetto della persona c’è un cristianesimo forse ancora molto interiorizzato, ma sicuramente profondo.
La giustizia di Copenaghen toglie ragioni all’emozione di chi lotta per la sua affermazione, ma conferisce alla sua gente la dignità tanto desiderata. E questo è bello.
Le cose più naturali del mondo
Copenaghen non ha complessi. Ho visto due amiche passeggiare nei pressi della RÁ¥dhuspladsen, raffigurando l’incontro impossibile di due mondi antitetici: una ragazza dal tratto tipicamente scandinavo e dall’abbigliamento occidentale e un’altra in «chador». Conversavano e ridevano come se questa fosse stata la cosa più naturale del mondo, perché in effetti questa «è» la cosa più naturale del mondo. Così come lo è tenersi per mano, dolcemente innamorati.
Mi sono chiesto tante volte perché il mondo non sia semplicemente così bello. Copenaghen regala il piacere delle cose semplici: camminare, conversare a bassa voce, andare in bicicletta, stare seduti su una panchina, sorridere.
Se non siete mai stati a Copenaghen, quando ci andrete non dimenticatevi del Nyhavn, un porto-canale riadattato magnificamente e ricolmo di ritrovi all’aperto, tutti sul lato esposto al sole. Al Nord il sole è una rarità preziosa e proprio per questo tutti lo cercano.
Come lucertole, i danesi vi si espongono in forme quasi paradossali, avvolti in quelle coperte di lana pesantissime e seduti come turisti sulla piazzetta di Capri. Anche se gelido, il sole è considerato come un regalo di Odino e degli dèi vichinghi e quindi non può essere disdegnato.
Molte volte mi sono chiesto che cosa mai mi porti ad amare così intensamente il Sud più caldo e travolgente e, nello stesso momento, il Nord più freddo e compassato.
Francamente non lo so. Però so che in entrambi i mondi io ho sempre cercato il tepore rassicurante del rispetto, in Sudamerica come in Scandinavia.
A Copenaghen sono stato bene e questo mi è bastato.
Sarà perché io sono da sempre un severo conservatore, perennemente alla ricerca delle sicurezze e sprofondato nel desiderio di un amore tenero e rispettoso. O forse sarà semplicemente perché nessuno mi soffocava in un abbraccio stressante e ricolmo di pregiudizi. Ecco perché Copenaghen è stata una carezza lieve.
Accompagnare gli innamorati
Una delle cose che più mi ha impressionato, visitando il Kongeliketmuseet, è stato un filmato innocente sul matrimonio del principe ereditario, figlio della Regina Margrethe. La sposa e lui, ballando, venivano via via sempre più stretti dagli invitati che stavano intorno a loro, fino al bacio finale.
Anche accompagnare gli innamorati è un’arte, perché associa l’attenzione all’affetto, il rispetto alla gioia. È il pregio di questa società borghese, solidale e mai individualista, ed è un’importante unità di misura della sua umanità.
Sono uscito dal Kongeliketmuseet ricordandomi per un attimo il giorno in cui, in Italia, mi avevano rimproverato di essere borghese, come se questa fosse stata una vergogna.
Poi ho pensato alla famiglia di Amalienborg, al matrimonio reale e al suo bacio stretto tra gli invitati, infine alle due ragazze della RÁ¥dhuspladsen e poi ho scrutato in profondità il mare verso la Svezia.
Meno male che sono borghese.