Sull’anima, sul potere e sulla libertà
Recensione a La strategia dell’anima
Con questa recensione Madrugada inaugura una nuova rubrica, dedicata all’approfondimento e alla discussione di alcuni dei temi più attuali del rapporto tra diritto e società.
È sempre suggestivo creare un contatto tra le proprie riflessioni e le ricche argomentazioni di Pietro Barcellona, ed è facile che ogni qual volta si verifichi una simile occasione il pensiero corra naturalmente ad una serie di ulteriori riferimenti o di passate esperienze, con spontanea rincorsa alla nuova meditazione di principi o di convinzioni ritenuti frettolosamente acquisiti.
Anche il saggio succitato non smentisce questa sensazione: anzi, personalmente devo confessare che il “retrogusto” di uno studio vorace ed appassionato del libro costringe a rivedere recenti letture e a confrontare le impressioni che esse avevano originariamente stimolato con i numerosi interrogativi che il testo propone.
Per questo motivo, anziché soffermarsi sulla diffusa complessità del ragionamento seguito da Pietro Barcellona, si preferisce presentare quale possa essere l’eterogeneo ventaglio di interazioni che sono astrattamente individuabili tra l’idea che l’Autore sostiene e alcuni dei più recenti sviluppi della riflessione giuridica: del resto, la posta in gioco è, sempre e comunque, la garanzia di spazi autentici di libertà per ogni individuo.
Ebbene, filo conduttore di tutta l’argomentazione proposta dal noto filosofo vuol essere, almeno nel programma iniziale, la dimostrazione della dimensione originariamente “pubblica” del soggetto, quale “valore” per così dire “annientato” dalle dinamiche spersonalizzanti della globalizzazione.
Si tratta, all’evidenza, di un assunto frequente in diversi filoni interpretativi contemporanei. Tuttavia, e nonostante siano facilmente riscontrabili alcuni punti di convergenza con quanto sostenuto dal noto sociologo sloveno Slavoj Zizek in un pamphlet recentemente tradotto anche in Italia (e dal titolo volutamente provocatorio: Difesa dell’intolleranza, Troina, Città Aperta Edizioni, 2003), ciò che di veramente interessante va menzionato è l’insieme delle rilevanti considerazioni sulle quali Piero Barcellona costruisce l’originalità del proprio approccio.
La tesi: libertà responsabile
In sostanza, la tesi di fondo è la seguente: poiché lo scenario, per così dire necessario e strutturale, dello sviluppo di ogni singolo individuo e della sua essenziale propensione “affettiva” è situato nella dialettica delle “istituzioni” create dalla (e nella) società, la “strategia dell’anima” occidentale è (e rimane) sempre racchiusa nel destino conflittuale della politica come luogo privilegiato della soluzione dei rapporti interpersonali, pena l’angoscia “privata” di un solipsismo sterile e disperante.
Parafrasando le belle parole di un libro particolarmente “appassionato” (E.T. Spanio, Il Dio sbagliato, Soveria Mannelli, 2002), potremmo ricordare che proprio nella volontà “totale” dell’uomo contemporaneo, o, meglio, in quella sua costante ricerca di essere infinito ed assoluto, si cela il pericolo dell’angoscia e della solitudine, e si riconosce la “frustrazione di quel suo divenire senza limite che è il suo desiderio infinito”. La dimensione pubblica dell’istituzione sociale e politica, viceversa, sventa un siffatto pericolo ed apre l’individuo all’appropriazione della sua sfera originaria e della sua condizione relazionale di libertà.
Un dubbio possibile
Ora, pur nell’intrigante consapevolezza di una simile conclusione, sembra lecito insinuare un dubbio: se il principale modello dell’istituzione socio-politica è ancora costituito dal paradigma rappresentativo della democrazia e se, quindi, la dimensione pubblica dell’individuo è destinata ad esprimersi nell’istituzione socio-politica, ci si può chiedere se, in un certo senso, e proprio per assecondare il pieno svolgimento della nostra personalità umana, siamo naturalmente costretti a rivivere e a “pacificare” nella dinamica rappresentativa il rito primordiale dello scontro quale fondamento originario della società e sfogo necessario della volontà di autoaffermazione.
La conclusione, è il caso di dirlo, non sarebbe tra le più consolanti.
Va detto, peraltro, che, tra i giuristi, si sta diffondendo una vasta ed autorevole corrente interpretativa che, dall’analisi di alcune delle “istituzioni” più tipiche della globalizzazione (ad es. la WTO), prefigura la nascita di nuove regole e di nuovi paradigmi, alternativi al modello rappresentativo del principio democratico e del tutto indipendenti dalla necessità che quest’ultimo si sviluppi nello Stato.
In sostanza, accanto all’ordinamento giuridico dello Stato, sarebbero ormai sorti ordinamenti giuridici nuovi, “spazi giuridici globali” (S. Cassese, Lo spazio giuridico globale, Bari, Laterza, 2003) spesso dominati da regole e principi che, nonostante l’assenza di meccanismi rappresentativi, garantiscono comunque il rispetto dei principi (di origine pubblicistica e non privatistica) della partecipazione e del rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali.
Da ciò potrebbe conseguire una duplice conferma: 1) che il significato originario ed essenziale dei rapporti tra le istituzioni sociali e gli individui che ne sono protagonisti richiede sempre l’esistenza di principi “superiori” capaci di regolare e “sedare” i conflitti; 2) che tali principi, in particolare, non sono soltanto legati ad una concezione rappresentativa della democrazia (l’espressione collettiva dei cittadini garantisce e rende possibile a tutti il godimento e lo sviluppo delle proprie libertà e dei propri diritti), ma sono altresì praticabili rendendo gruppi e comunità direttamente attivi nei meccanismi di com-partecipazione (se non addirittura di con-divisione) delle scelte più importanti dell’organizzazione pubblica (oggi non più statale, ma prevalentemente sovra-nazionale).
Pertanto, proprio con riferimento a fenomeni che tipicamente vengono ascritti all’espansione della globalizzazione e al superamento della sovranità “rappresentativa”, emerge il nuovo volto dell’istituzione sociale. Il nuovo Potere, in particolare, assume le vesti di un procedimento di vera e propria “amministrazione”, di globale “sintesi” pubblica di desideri e di aspirazioni comuni a tutti gli individui. Cambia il Sovrano, ma la gestione partecipata (e controllata) resta, e di ciò occorre essere consapevoli, specialmente se si vuole che simili meccanismi diventino veramente effettivi ed assurgano concretamente a “costituzione” del fenomeno globale.
Del resto, se, come afferma anche Barcellona, il destino dell’istituzione sociale e collettiva rappresenta la matrice dell’essere uomo, il fatto che il diritto della globalizzazione e delle sue organizzazioni tenda a manifestarsi in forma di democrazia partecipativa e procedimentale non cambia il quadro complessivo di riferimento e non impedisce, nella “sorpresa” generale, di riscontrare proprio nelle nuove “istituzioni” sovranazionali la chance per rinnovare il nesso originario tra pubblico e privato: ed è questo, del resto, il fulcro attorno al quale ruota anche la riflessione del filosofo catanese.
Altre vie?
Merita un rapido rilievo anche un ulteriore spunto contenuto nel testo.
Nella ricostruzione di Barcellona, infatti, è presente anche un importante riferimento all’opera di una delle “menti” più note nel panorama contemporaneo, René Girard: in particolare, vengono abilmente riprese sia la tesi dell’origine violenta dei legami sociali e del diritto stesso, sia la conseguente teoria della giustificazione “sacra” e “mitica” delle dinamiche attraverso le quali, in determinati contesti di crisi (sociale, economica o politica, o di altra natura), il gruppo degli individui associati sopprime il soggetto di volta in volta individuato dalla comunità quale “capro espiatorio”. Il sacrificio permette di rinnovare nello “scandalo” dell’omicidio rituale le ragioni del gruppo, messo in difficoltà dal momentaneo periodo di crisi (R. Girard, Il capro espiatorio, Milano, Adelphi, 1987).
Anche con riferimento a questo richiamo dovremmo chiederci se esso possa essere sviluppato al di là della sua innegabile vocazione suggestiva, e se la rivelazione dell’istinto violento, connesso a molte delle soluzioni con le quali la società spesso affronta la soluzione dei problemi nei quali incorre, non possa orientare gli individui che ne sono consapevoli verso l’accettazione e la pratica di un differente modello antropologico (precisamente, quello evangelico), e, conseguentemente, di una socialità con esso coerente. In una recente intervista, lo stesso Girard (vd. in Origine della cultura e fine della storia, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2003, 192), interrogato sui grandi fenomeni del tempo presente, ha sostenuto: «per me la globalizzazione rappresenta fondamentalmente l’abolizione non solo del sacrificio propriamente detto, ma di tutto l’ordine sacrificale: è la dilatazione dell’etica e dell’epistemologia cristiane fino ad abbracciare ogni settore dell’attività umana». Si sbaglia davvero?
Pietro Barcellona
La strategia dell’anima,
Troina, Città Aperta Edizioni, 2002,
pp. 147, € 12,00.