Sono forse scomparsi i maestri?
Quando l’allievo è pronto
Agitare prima dell’uso
Non era roba da intendere ma da adoperare, roba già fatta. C’era nel cinema, nelle canzoni, nelle cronache sportive dei giornali, nei programmi da ridere alla radio: non forniva idee alla gente, né serviva a mutare gli animi o la vita: anzi, forniva oggetti confezionati, delle macchinette culturali su cui la gente si divertiva a pedalare.
Meneghello, con i suoi Fiori Italiani, è un’ottima compagnia estiva: mai immediato, racconta le cose che il cuore comprende quando cerca la testa, cose della sua vita, ma dai tratti riconoscibili. In queste righe non parla di questo nostro ultimo decennio, ma degli anni in fiore del Regime.
L’architettura fascista del Liviano si piega sulla piazza, paziente ospita sui propri muri tentativi politici d’opposto segno, rossi di vernice. La serata di luglio non dà spazio al respiro: l’aria è quella umida di Padova e le foglie non accennano a movimenti. Le birre non mancano e i tavolini sono assediati.
Andrea mi guarda con gli occhi piccoli, furbi dietro agli occhiali: siamo distratti dal rotondo passeggiare femminile, ma il discorso si fa serio. «È questo il terzo studio di commercialista che cambio: nel primo le cose non erano male, ma ero io a non sapere cosa volere». Il secondo è stata un’esperienza penosa: un cattolicone sotutomì impermeabile alla chiarezza e buono a tenersi in equilibrio tra gli intrallazzi di un certo furbo noprofit e gli ambienti giusti. «Ora invece sono lì per imparare: i miei colleghi svolgono bene il proprio lavoro, andando fino in fondo alle questioni, prendendo su il telefono per contattare il cliente, senza delegare alla segretaria. Posso chiedere spiegazioni, posso farmi spiegare, posso rischiare sapendo di non esser solo».
Mi vengono in mente altri amici, impelagati anche loro nella pratica da commercialista o in uno studio legale: ambienti probabilmente rinomati, con un vertiginoso giro di clienti, ma aridi di provocazioni intellettuali, di comunicazione didattica, di attenzioni per il bocia di bottega, relegato al ruolo di impiegato-con-laurea. «Posso riconoscere in questa persona un maestro?» mi chiede Cristiano, sconsolato.
Piccoli maestri
Un maestro. La richiesta non è: datemi un guru! Fatemi conoscere un uomo saggio, capace di insegnarmi come affrontare la vita, uno stilita sapiente che mi suggerisca il tetrafarmaco della serenità… Niente di tutto questo.
Ripenso ai miei pomeriggi nelle aule della Facoltà di Lettere e Filosofia. Ripenso al lento inesorabile procedere dialettico del mio docente di teoretica: la compostezza fisica impeccabile, la figura esteriormente grigia, l’incedere regolare sui fogli ciclostilati, l’assenza di qualsiasi concessione all’estetica dell’intellettuale, una semplicità immobile, monastica, stirata fin quasi alla noia. E insieme l’esplosione fragorosa del pensiero, acrobazie filosofiche e letterarie sul filo colorato della teoresi più rigorosa, l’arcata variopinta in cui ospitare e far dialogare Heidegger, Platone e Schelling, un coro polifonico di idee in movimento, un sentire sulla pelle che le parole – ogni singola parola – sono questione di vita o di morte.
Tragici e esaltati, ci abbandonavamo esangui sulle panche dell’atrio, pieni zeppi di meraviglia. E ci davamo il permesso di commenti, glosse, aperture verso altri autori, piccoli carpiati mentali, insieme o da soli, poi, sui testi: sino alla fatidica frase con cui il professore concludeva l’esame orale, “per me può bastare”. Ma avremmo chiacchierato con lui fino alla nausea.
Il barbone Cagliostro
l’alchimia dell’apprendimento avrebbe bisogno di ben altre pagine. Mi chiedo però che cosa si muoveva nel mio sguardo, in quelle lezioni di metafisica, che cosa è passato, filtrato dall’esperienza, e mi rimane tra le mani quando cerco di fare l’insegnante a scuola. C’è qualcosa di vivo in tutto questo, che non arriva ad essere nominato: l’irrazionale magnetismo di chi riesce a metter in moto idee nuove. E nello stesso tempo chi avverte l’esigenza forte di imparare, di essere discepolo, si muove con disagio nell’aria pesante creata da chi, pur avendone la posizione e la responsabilità, non riesce a insegnare nulla.
Penso agli amici avvocati, ma anche a come forse si stanno trovando Anna e Fede, specializzandi nelle corsie dell’Ospedale di Padova; Michele, Giovanni, parroci per la prima volta; Davide e Luca, dottorandi sparsi nelle università italiane; Mattia, alle prime armi in uno studio di architettura; Luca, gettato dall’aura geometrica del greco al continuo compromesso liquido del sindacato.
Potremmo risolvere la questione in fretta: è questione di fortuna. Ma mi sembra troppo facile.
Ero in piazza del Duomo, a Padova. Avevo la custodia della chitarra sulla spalla e mi accingevo ad entrare in chiesa. Appoggiato al mattone della facciata mai terminata un uomo mi osserva: «tu, sei un musicista cattolico?» Mi chiede. Chi mi accompagna s’affretta a sparire in chiesa: la barba lunga, le sopracciglia incolte, i vestiti scoloriti e rattoppati della persona che mi ha rivolto la domanda sconsigliano di intrattenersi troppo. È un barbone. Ma io mi fermo: la questione è per lo meno curiosa.
«Anch’io sono un musicista» mi dice, ma il discorso lo porta oltre: «lo sai tu, che sono perfino un maestro di musica? Io insegno». Mi guarda e attende una mia reazione. Che non viene. «Ci credi? Sono diventato bravo. Il segreto è solo uno: assimilare». Assimilare: mi ripete il verbo, scandendolo. A s s i m i l a r e. Gli occhi scuri di quell’uomo erano seri: mi stava suggerendo uno dei suoi principi di vita. Come fosse una formula chimica. Porgere il fianco alla realtà e assorbirne i liquidi. I significati. Dichiararsi disponibili alle cose, farsi elementi solidi liquidi o gassosi pronti per essere fatti reagire, tra la spugna e la cartina tornasole. Mi rimbalza in testa quel detto della sapienza orientale: quando l’allievo è pronto, ecco che arriva il maestro.
Ritorno a Meneghello
Antonio non separava ciò che studiava e pensava per conto proprio da ciò che insegnava a noi. Era proprio questa la forza del suo insegnamento: non c’era tono didascalico, non svolgeva un programma. Parlava delle cose a cui si stava interessando senza proporsi di dimostrare qualcosa, o di convincerci. Ci faceva assistere al suo rapporto vivo con esse, ciò che ammirava, ciò che detestava (…). Era un’operazione maieutica incomparabilmente più sconvolgente. Ti trovavi davanti a un mondo di idee oggettivate, che parevano tuttavia strappate dal tuo interno. le avevi davanti, toccava a te arrangiarti.