Simone Weil. Il danaro, la povertà, la bellezza.
Riflessioni su alcune note sparse del periodo londinese
Anche se non si può parlare, a proposito del danaro, di un tema maggiore nella riflessione di Simone Weil, non è difficile ritrovare nei suoi scritti su questo argomento osservazioni interessanti.
Sorvolando sul suo curioso rapporto con il danaro di cui recano traccia le numerose lettere inviate ai famigliari durante gli anni di insegnamento, ritroviamo nei suoi scritti politici la denuncia del danaro quale unico incentivo per il lavoro operaio, quale unica preoccupazione nella trattativa sindacale e, soprattutto, negli ultimi anni e negli ultimi scritti, la critica radicale, paradossale del danaro, di ciò che rappresenta, cui viene contrapposta la povertà quale unico tramite per entrare in rapporto con la realtà del mondo e la sua bellezza.
Di questi ultimi scritti, meno noti, vorrei offrire, qui, una breve parafrasi, limitandomi a fare eco alla sua parola .
Alle radici della disuguaglianza
L’enracinement, tradotto in italiano da Franco Fortini col titolo di La prima radice, costituisce una sorta di summa del pensiero weiliano. In esso la sua riflessione sociale, politica e sindacale, la sua riflessione religiosa e, pudicamente, perfino la sua esperienza mistica, si ritrovano, componendosi, sia pure non compiutamente, in una sintesi. Tutto ciò che nella cultura dell’Occidente è potuto sfuggire al dominio della forza, appartenga alla tradizione greca, a quella cristiana evangelica, alle saggezze orientali, viene raccolto con amore in vista di un progetto di civiltà nuova da opporre al caos spaventoso finito in un incubo.
Non meraviglia quindi ritrovarvi una serie di considerazioni sul danaro già nelle prime pagine, laddove, parlando degli obblighi verso l’essere umano, tratta del bisogno di uguaglianza. È il danaro, infatti, che introduce nella società la prima stortura, quella per così dire originaria. Infatti, «facendo del danaro il movente unico, o quasi, di tutti gli atti, la misura unica, o quasi, di tutte le cose, abbiamo diffuso ovunque il veleno dell’ineguaglianza» (Ivi, p. 26).
All’interno di ogni paese, nei rapporti tra le diverse nazioni, il danaro è all’origine di quella malattia mortale che Simone Weil riconosce come il male specifico dell’Occidente, lo sradicamento. «Le relazioni sociali – scrive sempre ne L’enracinement – all’interno di uno stesso paese possono essere pericolosissimi fattori di sradicamento. Nei nostri paesi, ai nostri giorni, oltre alla conquista, ci sono due veleni che propagano questa malattia. Uno è il danaro. Il danaro distrugge le radici ovunque penetra, sostituendo ad ogni altro movente il desiderio di guadagnare. Vince facilmente tutti gli altri moventi perché richiede uno sforzo di attenzione molto meno grande. Nessun’altra cosa è chiara e semplice come una cifra» (Ivi, p. 50).
La follia della povertà
A contrastare lo strapotere del danaro, cui è riconosciuto nella nostra società il ruolo di “giudice e di boia” di tutti i comportamenti umani, non bastano proposte ragionevoli. Il fascino del danaro è troppo forte: ad esso non bisogna opporre la ragionevolezza dei buoni propositi ma la follia della povertà. Di questa radicalità è rimasta più d’una traccia in alcuni “frammenti e note”, redatti negli ultimi mesi di vita a Londra e poi in ospedale, ora raccolti negli Á‰crits de Londres et dernières lettres.
Perché il danaro, in una società nuova, ordinata, sia costretto nel suo mero ruolo contabile, perché cessi di essere il despota delle condizioni di vita degli uomini, «bisogna – ripete con ossessione martellante Simone Weil nella scia di Péguy – gettare il discredito sul danaro». Deve essere chiaro che le condizioni di vita degli uomini, il soddisfacimento dei loro bisogni primari, non può in alcun modo dipendere dal danaro posseduto. Per questo «la mancanza di danaro non dovrà essere causa di sofferenza, né il possesso di danaro causa di piacere» (Ivi, p. 178). Se qualcuno manca del danaro indispensabile al soddisfacimento dei bisogni primari, è evidente che la società è malata, gravemente malata. «Il danaro – scriveva nel 1941 a Antonio Atarés, un contadino anarchico imprigionato in un campo nel sud della Francia – deve scorrere come l’acqua là dove ce n’è troppo poco».
«Dal momento che non è possibile sopprimere le differenze di fortuna, e che le piccole differenze avvelenano la vita quanto quelle grandi se l’animo ne è ossessionato, vi potrà essere uguaglianza solo se si suscitano degli stimolanti diversi dal danaro, diminuendo sensibilmente la parte che il danaro ha nei pensieri degli uomini» (Ivi, p. 179). Per questo «occorre discreditare il danaro, rimunerando in maniera minore alcuni di coloro che beneficiano di un elevato grado di considerazione o di potere» (Ivi, p. 179). E al tempo stesso «deve essere pubblicamente riconosciuto che un minatore, un impiegato, un ministro hanno una pari dignità, né più né meno» (Ivi, p. 179).
Il danaro impedisce altresì all’uomo di cogliere le ragioni vere, profonde della sua sofferenza, della sua miseria, della sua insoddisfazione, perché «è fin troppo facile attribuire la sofferenza alla mancanza di danaro» (Ivi, p. 179). Il danaro, ancora, rende insensibili nei confronti degli altri, attutisce la capacità di attenzione, di compassione verso l’altro. La nostra società, laddove è riuscita a sviluppare un’etica del danaro, non è andata oltre la correttezza o la probità in materia, non è certo riuscita a produrre e diffondere un’etica della compassione.
Il rimedio, l’antidoto alla esasperata considerazione per il danaro che ottunde e chiude in se stessi, l’utopia che Simone Weil sente di dover proporre a questo stato di cose è la «follia della santa povertà» che fu già di Francesco, dei Catari, dei Poveri di Lione. È questo l’infinitamente piccolo, il granello di soprannaturale capace di mettere in scacco la forza che agisce con l’implacabilità della legge di gravità. «L’Europa asservita e oppressa conoscerà giorni migliori, al momento della liberazione – scrive in un altro testo intitolato Questa guerra è una guerra di religione – solamente se, nel frattempo, la virtù della povertà spirituale vi avrà messo radice» (EL, p. 105). I “nuovi poveri”, di cui avverte l’urgenza, dovranno costituire «una élite capace di far risplendere tra le masse la virtù della povertà spirituale. I membri di questa élite dovranno essere poveri, non solo spiritualmente ma di fatto; dovranno subire ogni giorno, nell’anima e nella carne, i dolori e le umiliazioni della miseria» (Ibid.).
Solo la povertà può restituire l’uomo alla verità del reale, alla bellezza del mondo. Ripristinare, con modalità idonee al nostro tempo, la considerazione della povertà non significa proporre un comportamento ascetico, ma orientare gli uomini, liberi dai vincoli del possesso, al godimento condiviso dei beni del mondo, in un clima di poesia e di bellezza. La ricchezza e il suo tramite costituito dal danaro, infatti, stendono un velo di menzogna sulla realtà, impediscono di vederla nello splendore della sua bellezza.
Nella povertà: bellezza e verità
«C’è nella povertà – scrive in un frammento estremo che domanda di essere citato per intero – una poesia che non ha alcun equivalente altrove. È la poesia che emana dalla carne misera contemplata nella verità della sua miseria. Lo spettacolo dei fiori di ciliegio, a primavera, non potrebbe andar dritto al cuore come avviene se la loro fragilità non fosse così sensibile. In generale una condizione d’estrema bellezza è d’essere quasi assente, o a causa della distanza, o a causa della debolezza. […] La ricchezza annienta la bellezza, non perché non offra alcun rimedio alla miseria della carne e dell’anima sottomessa alla carne, dal momento che alcun rimedio ci è accordato quaggiù, ma perché la nasconde con la menzogna. È la menzogna rinchiusa nella ricchezza che uccide la poesia. Per questo i ricchi hanno bisogno del lusso come di un surrogato. Da quando sono stati privati dei beni della povertà, anche i poveri hanno bisogno di lusso. Solo che essi non possono averlo» (Ivi, p. 181).
San Francesco ha rifiutato la ricchezza perché essa racchiude la menzogna, getta un velo sulla realtà: «egli non ha ricercato nella povertà il dolore, ma la verità e la bellezza, la poesia del contatto vero, conforme alla situazione umana, con l’universo in cui ci troviamo» (Ivi, p. 181).
Ora, «una povertà così intesa non è affatto un ostacolo alla compassione verso i poveri. Tutt’altro, dal momento che la compassione è alla radice di questa poesia. Le opere di compassione non patiscono ma si ritrovano accresciute. L’amore della povertà non ha nulla di ascetico; esso coglie e assapora nella loro pienezza tutte le gioie, tutti i piaceri che si offrono» (Ivi, pp. 181-182).
Il richiamo a Francesco
La povertà che Simone Weil intende contrapporre alla menzogna della ricchezza non è qualcosa di astratto ma essa si incarna in Francesco che ella ha conosciuto, amato fin dall’adolescenza e sovente evocato nelle sue lezioni come ci ricorda la sua alunna Anne Reynaud-Guérithault. Non è un caso che il primo vero contatto con il cristianesimo sia avvenuto ad Assisi, nel 1937, nella piccola cappella romanica del XII secolo in Santa Maria degli Angeli, dove Francesco si raccoglieva molto spesso a pregare. Per questo il cristianesimo di Simone Weil sarà stoico, evangelico, più semplicemente, francescano.
Facendo eco a quanto i Fioretti narrano di Francesco e del suo compagno Frate Masseo, che si fermano, in perfetta letizia, «fuori della villa in uno luogo per mangiare il pane accattato dove era una bella fonte, e allato a una bella pietra larga» -, Simone Weil annota in puro stile francescano:
«Una piccola trattoria, dove si possono consumare per pochi soldi dei pasti sommari, è colma di poesia. Essa è veramente un rifugio contro la fame, il freddo, lo sfinimento; è situata sul limitare, come un posto di frontiera. Questa poesia è già del tutto assente in un ristorante medio, dove niente riporta alla mente che degli uomini possono avere fame» (Ivi, p. 181).
È a questa povertà, a questa nudità, a questo spossessamento, che Paolo attribuisce a Cristo, che Simone Weil aspira e a cui infine giunge negli ultimi mesi di vita. Un anno prima aveva scritto al padre Perrin che «la sorte l’avrebbe sospinta un giorno di forza in quello stato di vagabondaggio e di mendicità in cui Francesco era entrato liberamente» (AD. p. 73). Quando il 17 agosto 1943 lascia l’ospedale Middlesex per raggiungere il Sanatorio di Ashford, si ritrova sola, i suoi amici di France Libre da cui ha dimissionato, sono lontani: non è più nulla, non vuole essere più nulla, immobilizzata in un letto, ella è il “pezzetto di carne” sottomesso a ogni tipo di azione esterna in cui, per contrasto, la bellezza può rifulgere.
Per questo non c’è nulla di più coerente e di più commovente delle ultime lettere inviate ai genitori dal suo letto d’ospedale: esse parlano di fiori, della fragile, improbabile, e perciò sommamente bella primavera londinese. E in questo quadro di fragilità, di nuda bellezza Simone Weil ci consegna l’esito ultimo del suo pensare: solo i folli e i poveri, completamente illimpiditi nel loro sguardo, contemplano la verità del mondo, ne colgono tutto lo splendore.
Simone Weil nasce a Parigi il 3 febbraio 1909 in una famiglia ebrea assimilata. Allieva del filosofo Alain, insegna per qualche tempo la filosofia in alcuni licei di provincia. Nel 1935 compie un’esperienza di lavoro in alcune fabbriche pargine, per sperimentare direttamente la condizione operaia. Impegnata soprattutto nelle organizzazioni sindacali, prende parte per un breve periodo alla guerra di Spagna, uscendo profondamente segnata dal contatto con la barbarie e con il dispiegamento della forza. Contemporaneamente la sua riflessione si orienta verso la problematica religiosa.Sfollata nel sud della Francia, a Marsiglia, durante l’occupazione nazista, vi conosce il domenicano padre Joseph-Marie Perrin, con il quale avvia un intenso dialogo spirituale. Dopo un breve soggiorno negli Stati Uniti, ritorna in Europa, a Londra, per lavorare nei servizi di France Libre del generale De Gaulle, e qui muore di tubercolosi il 24 agosto 1943.
I suoi scritti, ad eccezione di alcuni articoli di argomento politico e sindacale, saranno per lo più pubblicati postumi, da Albert Camus (L’enracinement, Oppression et liberté, Á‰crits historiques et politiques, Á‰crits de Londres et dernières lettres…), dal padre Perrin (Attente de Dieu, Intuitions préchrétiennes…) e dal filosofo tradizionalista Gustave Thibon, ugualmente conosciuto durante il periodo marsigliese (La pesenteur et la grâce). La sua amica Simone Pétrement e futura biografa curerà i Cahiers, nei quali sono confluiti le sue mirabili note sulla conoscenza soprannaturale. Una buona parte dei suoi scritti sono disponibili in Italia, in particolare presso l’editore Adelphi.