Silenzio e interiorità
Armonia di contrari
Esistono molteplici accezioni del termine silenzio: c’è il silenzio sterile e stanco di chi ha parlato troppo, accanto al silenzio forzato di chi non può parlare perché non ne ha la facoltà (i muti) o perché ne è impedito dall’autorità (i dissidenti); c’è il silenzio rassegnato della vittima che ha rinunciato alla lotta, accanto al silenzio di chi non si sottrae alla lotta pur non avendo alcuna voce per rivendicare le proprie ragioni; c’è il silenzio della mistica e della contemplazione, c’è il silenzio richiesto ed indotto dal contatto con la pagina scritta e c’è il silenzio che aleggia sul campo di battaglia dopo uno scontro cruento: il silenzio della morte; c’è, ancora, chi tace perché non ha nulla da dire e chi, al contrario, tace perché ogni dire risulterebbe inadeguato e "parla", molto più incisivamente, proprio tacendo.
Naturalmente c’è silenzio e silenzio; ma che cos’è il silenzio? Si potrebbe dire che è una dimensione di cui l’uomo ha vitale bisogno come è dell’aria per il respiro; ma è pure armonia di contrari, è lotta all’ultimo sangue con i propri dèmoni, è stasi che pone le premesse per una nuova forza, è soprattutto ascolto, è bellezza, è estasi e perdizione, è uno dei poli indispensabili al darsi e al pieno dispiegarsi della dialettica dell’esistenza.
Non è semplicemente e riduttivamente assenza di suono – questo è soltanto il senso più povero dell’espressione: è piuttosto la condizione stessa che rende possibile (e dotata di senso) ogni comunicazione, ogni suono.
Il silenzio, a condizione però che si tratti di una scelta volontaria e non indotta dall’esterno, è anche libertà nella sua forma più alta, è autenticità, è, paradossalmente, piena espansione della soggettività e delle sue potenzialità: ne sono una prova le arti, dalla musica alla poesia.
Con questo, naturalmente, non si vuole negare il potenziale negativo che il silenzio racchiude: all’interno di rapporti logorati, nella famiglia come nella società, esso può infatti adombrare tensione e rifiuto spinti fino ad un’aperta ostilità che si esplicita nella negazione dell’altro; valore negativo il silenzio può assumere pure in situazioni cruciali quali la separazione inattesa ed innaturale da una persona cara: la morte – incarnazione del silenzio supremo – può apparire quale negazione radicale ed irreversibile di ogni possibile dialogo in quanto annientamento dei soggetti medesimi tra i quali dovrebbe innescarsi lo scambio comunicativo.
Il silenzio acquista tuttavia una connotazione ulteriore e molto forte nell’ambito della teologia, di quella teologia che è stata troppo sbrigativamente classificata con la formula di teologia "negativa" o della morte di Dio: per i teologi di questo orientamento – ma il discorso si potrebbe estendere pure alla letteratura e alla riflessione teologica dell’ebraismo dopo l’esperienza della shoah – il silenzio, l’assenza, al limite la morte stessa, divengono le cifre per antonomasia della trascendenza, di un dio che si "rivela" proprio nella negazione di se stesso, nell’assurdo e nel paradossale: il silenzio di Dio, pietra d’inciampo e di scandalo per gli uomini, anche per quelli di fede, del Novecento!
Perfino nella storia della chiesa il silenzio ha avuto e continua ad avere notevole spazio: si pensi alla formula che era in uso fino a pochi anni or sono per alludere alle comunità cristiane dei paesi satelliti dell’URSS ("Chiesa del silenzio"); ma non si può dimenticare nemmeno il silenzio imposto d’autorità dalle gerarchie ecclesiastiche a voci scomode di credenti in anni non troppo lontani: Dom Helder Camara e i teologi della liberazione, Lorenzo Milani e tanti altri preti controcorrente.
Il silenzio, oggi
Il silenzio, per chi scrive, è un valore da riscoprire – attingendo per esempio alla tradizione delle nostre campagne, o a quella delle genti di montagna – e da difendere contro l’invadenza e l’arroganza della società mediatica globalizzata e globalizzante, onnipresente ed onnipervasiva; è un bisogno e una necessità in un mondo sempre più dominato dalla fretta, dai Moloch del profitto e dell’efficienza; è un lusso che non ha prezzo e che bisogna sapersi concedere centellinando i propri interventi e restituendo alla parola la sua dignità più vera liberandola dalle incrostazioni che il tempo ha sedimentato, attraverso usi non sempre appropriati.
Si tratta di una dimensione che intrattiene rapporti molto stretti con quella dell’interiorità, senza per questo appiattirsi, annullandosi, nell’autoreferenzialità: silenzio ed interiorità sono quasi le due facce di una stessa medaglia.
Si tratta, anche, di una condizione di grazia che non è per tutti e che non è dato a chiunque sperimentare: è il silenzio che elegge i propri fedeli e li sceglie con cura. Esso è pure una condizione antitetica rispetto alla modernità, a quella occidentale almeno: l’uomo del 2000, l’uomo o la donna di Milano, Berlino, Parigi o New York parlano, gridano, chattano ma non comunicano, non entrano mai davvero in relazione e non lo possono fare fintantoché non prendono coscienza che il loro codice espressivo è ormai logoro ed insignificante – proprio perché si presta a significare indifferentemente tutto – paradossale ma logica conseguenza della globalizzazione indotta dai e nei sistemi dell’informazione. Ora che la parola è giunta ai limiti estremi della propria significanza è arrivato il momento di una "epoché" del linguaggio, di una sospensione delle chiacchiere vuote ed inautentiche per restituire alla parola la sua valenza di verità e di rivoluzione/rivelazione.
Ed il primo passo è l’ascolto, nel silenzio, delle voci che ciascuno porta in sé.