Serbare nel cuore

di Lizzola Ivo

Caro figlio, sto partendo e vorrei dirti che avevi ragione quando indicavi nel mio desiderio di immobilità l’impossibilità di abitare insieme questa terra…
Caro padre, sto tornando e vorrei dirti che non avevi torto quando segnalavi nel mio desiderio d’andare sempre altrove l’impossibilità di viaggiare in comuni terre di mezzo…
Ora che sto andando, mi pare di imparare a lasciare quel che credevo mio, e che invece ho rammemorato essere costruito da altri per me, o da me per altri, per te figlio nascente, per gusto o per obbligazione, per dignità: partire è riconsegnare, rimettere in circolo…
Ora lo capisco: è solo nel ritornare che si prova a tenere il filo di un viaggio dentro di sé, e della densità degli incontri, delle parole scambiate; sono stato sorpreso vedendo che ciò che pensavo di trovare altrove, in altri posti, uomini, donne, era o appariva in me: attraversava me, il mio paesaggio interiore, la dignità…
Avevi ragione, tu ragazzo, a chiedere che gusto poi ci fosse a stare a ridosso delle pietre come l’acqua dei nostri fiumi, attaccati a saperi già saputi, a sentire cose già sentite: e le maree? quel che non sai di non sapere? gli echi dell’inaudito? Avevi ragione, tu grande, a guardare scettico il vagare con poco gusto, nel timore di consistere, sfuggendo il morso del limite e del finire: evitando l’incontro che trattiene, e rischia di svelarti: e il respiro? il riposare nell’altro? l’intrattenerti in libertà? Abitare questa terra è disegnarla segno la tua indicazione ­ e disegnarla è desiderio, è inseguimento della stella, è farla abitare dalla tenerezza tesa tra noi, tesa tra noi e l’attesa di cieli nuovi, cupola della nostra ospitalità reciproca: nulla è mai uguale a prima, la terra è destinata.
Viaggiare nelle terre di mezzo è disegnare e ritessere le mappe ­ me lo segnalavi ­ tra noi e con altri: e ritessere è fedeltà e resistenza, esistenza che torna e si riapre, e continuità nel racconto scambiato con chi, rispettoso e pacifico, è venuto all’incontro nulla è più uguale a prima, la nostalgia setaccia il buono e il giusto…
Questa terra, giovane figlio, te la consegno lasciandola, pensando che abitandola con dignità e cura anche a te l’ho dedicata; abitarla a volte è sconsacrarla, possederla è violarla, ma abitarla insieme è viverne l’estraneità, l’esserne emigranti­immigrati, sradicati amanti, in terre che son sempre terre di mezzo: non mie, non tue, né di nessuno, ma terre tra noi, perché una promessa si dia…
Le terre di mezzo, padre mio, le tengo ora dentro, e non son più sfondo di avventura ma racconto di un cammino, la mia storia, storia con altri, tra noi; passaggio nella meraviglia dell’accoglienza e del rispetto, e nella felice capacità d’offrire gesti accoglienti, terre di mezzo, per tornare a conoscerci unici, finiti, a volte buoni e giusti: non mie, non tue, né di tutti indifferentemente, ma terre tra noi, perché una speranza viva…
Caro figlio, sto partendo e abiteremo la distanza a cui ti ho chiamato generandoti, perché il viaggio fosse tuo, e sapendo che non poteva essere anche mio; ti son grato per avermi strappato dall’immobilità e dal presidio delle mie opere con lo stupore dei tuoi passi nell’inedito.
Caro padre, sto tornando e mancherà il tempo di attraversare insieme la terra che ho intravisto, e nella quale ho scoperto la tua consegna, da generato; ti son grato per avermi richiamato dal vagare presuntuoso e in fuga, e d’avermi ridato la memoria con la nostalgia dei racconti tra noi.
Resta l’incanto, mio compagno e figlio mio, che ho serbato ora dolente, ora dolce e appassionato, della compagnia di vita, dell’avervi tenuti in corpo, del cogliere un crescere senza possedere, e un lasciare senza abbandonare: con te, compagno, un crescere cercando il rispetto; con te, piccolo, un separarci in corpi diversi senza abbandonarci.
E serbo nel cuore tutto questo come promessa di un incontro nuovo.