Racconti da Konstanz
Tante persone, tante storie
Mi è sempre riuscito difficile dare delle definizioni. Così precise, secche, impeccabili che a fatica la confusione, la ricchezza, l’imperfezione del mondo vi si possano rispecchiare. Che cos’è l’Europa… dire un continente, una regione politica, una cultura che affonda le radici nel cristianesimo e dintorni lo trovo in fondo un po’ banale. L’Europa è tante persone, tante storie. La storia che io posso raccontare comincia a scuola, quando studiare la geografia voleva dire fare disegni, cartine, grafici, cartelloni e ricerche. Si cominciava dalla propria città, provincia, regione e poi sempre più in grande: l’Italia, l’Europa, il Mondo. E l’Europa era quindi sapere la capitale, i laghi e i fiumi, la bandiera, la moneta, i prodotti tipici di un Paese tra gli Urali, il Mar Nero e l’Oceano. Un’immagine scolastica, che si è un po’ sbiadita nel tempo. Poi sono venuti i viaggi con la famiglia. Francia, Grecia, Repubblica Ceca, Austria, Spagna, Svizzera, Germania, Olanda… e l’osservazione di una vita che non era certo come la nostra, i problemi con la lingua, la visita guidata del patrimonio artistico segnalato con almeno due stelle dal Touring Club. Ah, e il cibo naturalmente. Come fare a stare senza la pasta e il caffè espresso? Forse eravamo ancora troppo turisti per comprendere tutto sotto un’unica grande idea a dodici stelle su sfondo blu. Ma intanto osservavamo, annusavamo l’Europa, vi scorazzavamo attraverso. Quando il viaggio è prima di tutto qualcosa di fisico e ogni conoscenza parte dall’esperienza delle cose del mondo. Erano quelli pure i tempi del trattato di Maastricht e delle prime idee di una moneta unica, della libera circolazione senza frontiere. L’Europa era sui giornali e in televisione. Ma non saprei dire di più riguardo a quello che è stato deciso allora. Ricordo solo che vedere poi le dogane vuote e inutili ci ha fatto un certo effetto, la sensazione di una conquista e di un passo in avanti verso qualcosa di positivo e di grande. La stessa impressione che mi ha lasciato trovarmi gli euro nel portamonete. Stavamo facendo qualcosa di importante, noi, europei. Un senso di comunanza, di uguaglianza. In questo momento di estreme divisioni e conflitti, di demolizione e atomizzazione chi non si è sentito, non dico orgoglioso, ma almeno contento che un passo nella direzione opposta fosse stato fatto?
Parlando di Europa tra noi europei
Non importa perché, non importa sapere che ruolo abbiano avuto nella faccenda gli interessi politici e soprattutto economici. La prospettiva di poter vivere in paesi diversi pur essendo in un certo qual modo a casa è affascinante, soprattutto per i giovani. Ne parlavamo insieme qualche giorno fa, qui nell’officina Erasmus che è la cucina del mio studentato. Italiani, francesi, tedeschi, spagnoli & friends… l’Europa è questo: potersi incontrare e parlare, scambiarsi opinioni, informazioni sui rispettivi paesi, condividere il peso dei fatti del mondo, sentire che a volte si può essere anche una valida alternativa all’America. Scoprire che in fondo in fondo non siamo poi tanto diversi ma solo abituati ad esserlo. Una buona idea insomma, l’Europa. Per i non addetti ai lavori penso che tale idea, come la sto descrivendo io che ci vivo dentro, sia più un fattore emozionale che altro. Perché appunto ci vivo dentro e non ho mai avuto il bisogno di andarmene via, né mi è mai capitato di sentirmene fuori. Quando cresci studiando la storia, la letteratura, la filosofia europea (o occidentale, con pochi cenni alle culture extra-europee, e solo perché noi abbiamo avuto a che fare con loro nei nostri pellegrinaggi coloniali, non il contrario) fai fatica ad immaginarti come possa esserci qualcosa di diverso. Quando sei immerso in una serie di cose che inconsciamente costituiscono la tua mentalità, pensi che alla fin fine non ce ne siano di migliori, se pur ce ne dovessero essere altre. Quando salti da uno stato all’altro solamente con la tua carta d’identità pensi che non ti servirà mai nient’altro anche se devi andare fino in Brasile. Ho fatto il mio primo passaporto due settimane fa. Abito in Europa e tutto mi è garantito. E non me ne rendo conto.
Con gli occhi di chi sta fuori della U.E.
Qui vado a capo perché il flusso di idee si sofferma sul momento in cui sono uscita dal cerchio della familiarità e ho conosciuto persone che venivano da fuori dell’Europa o anche solo da fuori dell’Unione Europea. E qui finisce anche la storia della mia Europa e inizia quella degli altri, anche se non posso negare che attraverso di loro sia diventata poi anche un po’ mia. Per quella vecchia legge per cui dal contrasto nasce l’identità, l’Europa viene ad essere tutto quello che il resto del mondo non è. I miei amici americani e canadesi non si stancano di ripetere che qui tutto è piccolo e raggiungibile. Se dieci ore di viaggio in treno per noi è molto per loro è una distanza relativamente normale, anche perché non c’è proprio il bisogno di prendere l’aereo. Una volta superato l’oceano tutto per loro sembra a portata di mano. Un’altra stranezza è che gli europei usano abitualmente i mezzi pubblici di trasporto e la bicicletta. E hanno automobili piccole: non si vergognano ad andare in giro con una Smart. Ma anche le strade sono piccole, strette… adatte a tali auto. E poi il senso del passato e della storia è tarato su parametri differenti. Qualcosa di antico negli States risale al 1800 mentre in Europa… beh, si parla addirittura di prima di Cristo. Ed è comico per noi il loro stupore davanti ai castelli o davanti alle mura e alle cattedrali medievali, ma effettivamente loro queste cose non ce l’hanno. Se la discussione si volge alla politica il discorso si fa estremamente più complicato. È un tema legato alle singole coscienze, anche se il contesto politico esterno influisce molto. Un’università del New Jersey (insieme al servizio nazionale per la sicurezza) dopo l’inizio della guerra in Iraq ha spedito ai suoi studenti all’estero una lettera in cui li invitava a evitare le manifestazioni pacifiste e i luoghi abitualmente frequentati da americani che potessero sembrare obiettivi di attentati terroristici (Mac Donald’s e simili). Ovvero fuori dalla protezione di mamma America (soprattutto se questa ha fatto qualcosa per cui ha da temere) bisogna stare molto attenti. Per il mio amico sudafricano (bianco) invece l’Europa è tranquillità e assenza di violenza. È un modo decisamente più facile di vivere, insieme, senza la continua paura di essere un bianco nella parte sbagliata della città. Senza la bruciante coscienza della lacerazione che la divisione porta impressa dentro. Passando ora a Oriente devo dire che il mio amico giapponese di Tokyo ha trovato in Europa un ritmo più a misura d’uomo, un mondo decompresso, fatto di abbracci e baci tra amici, di una fisicità e di una tenerezza che mi sono sembrate assenti dai suoi racconti, anche da quelli riguardanti le relazioni familiari. Anche lui ha scoperto la bicicletta e soprattutto il forno. Le loro cucine sono così piccole che il forno non ci sta come di conseguenza non ci stanno i ricordi d’infanzia della mamma che cuoce i biscotti per la merenda. E poi qui la vita costa di meno, si può andare al cinema senza spendere un capitale anche più di una volta al mese. Quando è ritornato in Giappone ha faticato a sentirsi a casa in una città che in un anno era già cambiata, a riadattarsi a quel mondo caotico e frenetico che nemmeno nelle grandi capitali europee aveva trovato. La mia amica senegalese, invece, mi dice che per lei l’Europa è la libertà di essere quello che veramente sente di essere, senza i vincoli della tradizione e soprattutto della famiglia. Qui ha per la prima volta lavorato, si è resa cioè indipendente almeno un po’ dal denaro paterno. Qui ha visto i giovani (non gli italiani…) andare via di casa a vent’anni e costruirsi una propria vita autonoma. Lei intanto è andata in discoteca, si è comprata i pattini in linea… per lei questo resta il luogo delle possibilità aperte. Qui ci sono soldi, tecnologia, strutture. Tutte cose che l’Africa ancora non ha. E poi anche il semplice fatto di poter cambiare, di proporre qualcosa di diverso da quello che è già: nulla le sembra fissato per sempre. Ha spesso usato la parola riforme (parola forse da noi un po’ abusata, da leisicuramente no…). Le piacerebbe diventare ministro di qualcosa, in Senegal. Vi tornerà con questa speranza.
Rientrando nella tangente del cerchio
Tornando nel vecchio continente ci sono ancora una paio di storie da stare ad ascoltare. La mia amica ceca studia letteratura a Praga, pensa all’Europa come alla soffitta di uno scrittore un po’ bohemien, con molti libri e molti amici in giro per il mondo, stoffa grezza e tempo piovoso, legno scuro ed accogliente, sorriso asciutto e occhi azzurri, un bicchiere di vino. Lei non parla italiano, non me l’avrebbe mai descritta così la cultura europea che aveva in mente mentre sorridendo cercava di descrivermela. Ma sono sicura di aver afferrato il concetto. Ma certo oltre la poesia viene la storia: anche lei ha conosciuto il comunismo e la paura su cui si reggeva. Ora la Repubblica Ceca entrerà nell’UE, con tutti i vantaggi che ciò porta, solo che forse dovrà comprare dall’Italia le patate che prima produceva da sé e pagare loro il viaggio. Le mie amiche bosniache, infine, entrambe di Mostar ma una della sponda musulmana e l’altra di quella cattolica-croata. Per entrambe l’Europa è principalmente l’Unione Europea, con tutti i privilegi e le comodità offerte a chi vi abita dentro. L’UE è una scelta economica che esclude le nazioni più povere o meno competitive o più disastrate dal punto di vista politico e organizzativo. La Bosnia è una di queste ed è fuori. È già Balcani (loro stesse non si sentono europee, pur essendolo almeno geograficamente), con la scia di sangue che questo nome evoca. Sono state rifugiate di guerra e entrambe mi hanno raccontato dell’odio che al loro ritorno a casa più che mai hanno sentito crescere tra i gruppi etnici. Non può esserci Europa se le persone che vivono insieme si odiano, pensiamo noi. Già. Intanto però loro se vogliono venire in Germania, ad esempio, hanno bisogno del visto. E perché questo visto sia rilasciato bisogna che conoscano qualcuno che risieda là e le inviti. Una di loro voleva andare a Londra, dove abita una sua cugina. Io ho visto la lettera con cui questa parente la invitava adducendo come motivazione (ma bisogna motivare l’invito di un familiare?) la nascita di un figlioletto che la mia amica non aveva ancora potuto vedere. Incredibile. Dopodiché il visto (costo circa 60 euro) sarebbe stato rilasciato solo a Duesseldorf, cioè a 700 Km da dove lei al momento vive. Non è andata a Londra. Allora voleva andare a Praga ma, anche lì, serviva il visto. Ciò significava viaggio a Monaco per ritirarlo (quattro ore buone di macchina da qui) dopo aver aspettato almeno una settimana. Alla fine non è andata nemmeno a Praga. Però ci ride sopra proponendo per il prossimo viaggio Cuba come destinazione, dove, ne è certa, non le serve nessun visto…
Tutto questo è l’Europa. O, come mi hanno suggerito i miei amici, l’Europa è semplicemente una buona idea: non ha senso continuare a dividersi in un mondo che sta diventando sempre più piccolo.
Grazie a… Ralph, Hidejuky, Matthew, Steven, Veronika, Mariama, Réne, Julian, Daniel, Edina, Lubjca, Dieter, Thomas, Csaba, Aurelíe, Riccardo, Laura, Valentina, Patrick, Francesca, Dominik, Rodrigo…
Konstanz (Germania), maggio 2003
Il progetto Erasmus
Erasmus è il nome di un programma di scambio tra le università europee (anche all’esterno della Comunità Europea) che permette agli studenti partecipanti di trascorrere dai 3 ai 12 mesi all’estero presso università straniere che hanno un accordo o progetti di collaborazione con la propria. Lo studente sottoscrive con la propria università un contratto che determina il periodo di tempo da passare all’estero e il piano di studi da seguire. Egli infatti può, o anzi è tenuto, a sostenere gli esami corrispondenti al proprio anno di corso in Italia (o nel paese di origine). L’università ospitante rilascerà poi al termine del suddetto periodo un attestato con i risultati raggiunti che l’università d’origine dovrà poi riconoscere. Lo studente paga le tasse presso la propria università ad è esentato dal pagamento di quelle presso l’università straniera (anche se in Germania, per esempio, gli studenti non pagano le tasse ma solo un piccolo contributo per l’organizzazione delle attività e per il materiale). Il programma prevede anche un piccolo finanziamento (120 euro al mese) stanziato dalla Comunità europea che può eventualmente venire integrato dalle risorse della propria università o da altri tipi di borse di studio. Il progetto Erasmus è cominciato nel 1987-88 con 3.200 studenti, nel 2000-01 sono diventati 111.100, in totale 851.415. Quest’anno verrà superata quota 1 milione (La Repubblica, 23.10.02). Il progetto Erasmus è una possibilità di andare all’estero, con tutto ciò che questo significa. È una porta aperta sul mondo.