Ombre gialle

di Masina Ettore

La memoria delle tragedie

1.

Leggendo sui giornali italiani i commenti al 25.mo anniversario della vittoria vietnamita nella guerra di liberazione, mi sono tornate alla mente alcune immagini e alcuni libri.
Le immagini sono quelle dei cimiteri che costellano le regioni del Nord: tombe vuote, “virtuali”: dopo il conflitto, il poverissimo Vietnam non ha potuto affrontare il costo economico della traslazione di un milione di militari morti combattendo al Centro e al Sud del paese, ma le famiglie hanno voluto almeno un cippo sul quale posare un fiore. E, anche, le immagini che ho rivisto nella memoria, sono quelle dei “bambini-granchi”, come un giornalista europeo li definì una volta: quelli cui, a Hochiminhville, la dottoressa Nguyen Thi Ngoc Phuong, chiamata per questo “la mamma dei mostri”, cercava, con sapienza e tenerezza, di dare sembianze umane: piccini stravolti da orrende deformità, nati da madri avvelenate dall’Agent Orange, il defoliante alla diossina irrorato dagli americani su grandi zone del Vietnam per stanare i partigiani dalle giungle (bambini così nascono ancora, a centinaia: l’avvelenamento passa di generazione in generazione).
Ho rivisto le montagne desolate in cui le immense foreste tropicali sono state ridotte dalla diossina a macchie di sterpi: neppure più le farfalle né gli uccelli, soltanto zanzare e cobra. E ho rivisto nei ricordi le catacombe di Cuu Chi, nei pressi di Saigon, capitale del Vietnam del Sud e dell’armata americana: 240 chilometri di cunicoli in cui le “ombre gialle” si nascondevano, curavano i feriti, addestravano le reclute, sbucando poi alle spalle del nemico, da pertugi che si aprivano nelle risaie. Un immenso formicaio umano, poiché anche questo fu la guerra in Vietnam: un popolo di minuscoli guerrieri in lotta contro la più potente macchina militare della storia. L’opinione pubblica mondiale lo comprese, in molti luoghi della Terra ” e anche in Italia ” fu appassionatamente con i soldati dello zio Ho e con i patrioti del Sud.
Ho trovato anche, incise nei miei ricordi, le immagini atroci dei film americani che coraggiosamente denunziavano i crimini di una politica dominata dagli interessi dell’industria pesante, da un’ossessiva convinzione che l’Asia potesse diventare un continente “rosso”; e raccontavano lo svilimento umano prodotto da
un militarismo ottuso e feroce: “Apocalipsis now”, “Full Metal Jacket”, “Platoon”, “Il Cacciatore”, “Nato il 4 luglio”… In quei film, i vietnamiti quasi non c’erano, se non come ombre nella giungla, belve infide mescolate alla gente dei villaggi. Contro di loro, un immenso stuolo di ragazzi supernutriti e superarmati spinti all’uso della tortura sui nemici e consegnati alla disperazione dall’impossibilità di comprendere la tragedia in cui erano coinvolti e che giorno dopo giorno minava la loro stessa umanità. Nella conclusione di uno di quei terribili film i “rangers” avanzano verso un orizzonte in fiamme, cantando “Topolin, Topolin, viva Topolin”. Ritornati bambini, terrorizzati e feroci.
E anche libri, dicevo, ho ricordato: libri di autori americani come Fitzgerald e Karnow, O’ Brian e Currey, ma anche Nixon e McNamara e Kissinger; e tutti, anche quelli scritti per difendere le ragioni della guerra, costretti ad ammettere l’inutilità dell’avere messo a ferro e fuoco l’intera ex Indocina (non soltanto il Vietnam ma anche la Cambogia e il Laos); a riconoscere i crimini della CIA (come l’assassinio, per ordine di Kennedy, dei fratelli Diem, dittatori sudvietnamiti: o la propaganda menzognera per incentivare la fuga dei cristiani del Nord); ad ammettere le bestiali atrocità commesse dai militari di Saigon (le “gabbie di tigre”, le prigioniere violentate dai cani…).
Anche questo, infatti, fu la guerra nel Vietnam: la tragedia, la barbarie, il cinismo dei politicanti, ma anche il coraggio dei democratici americani ” giornalisti, intellettuali, studenti e reduci – e di molti, moltissimi cristiani che insorsero contro la perpetuazione degli orrori, per testimoniare la verità contro la propaganda “ufficiale” e l’escalation delle armi.
Perché ho ricordato queste immagini e queste letture? Perché nella stragrande maggioranza dei giornali italiani nelle scorse settimane si è parlato esclusivamente o quasi dei maltrattamenti ai prigionieri americani, dei campi di punizione per i collaborazionisti del governo di Thieu, delle persecuzioni che spinsero centinaia di migliaia di cino-vietnamiti a trasformarsi in boat-people, disperati fuggiaschi per mare. E lo si è fatto cancellando ogni altra realtà, com’è proprio del revisionismo storico che nega le tragedie altrui per cancellare ogni ricordo delle colpe della nostra “civiltà occidentale e cristiana”.
Io credo, invece, che con pietà e con coraggio noi dobbiamo mantenere la memoria delle tragedie, delle crudeltà, delle sofferenze e anche degli eroismi che segnarono la storia del secolo che va concludendosi. Quando, come si è fatto in questi giorni (assai più nell’Italia berlusconiana che negli Stati Uniti), si pretende di giudicare non il presente ma il passato del Vietnam, non si può dimenticare che gli aerei americani lanciarono sul Vietnam tre volte più bombe di quante ne furono usate su tutti i fronti del secondo conflitto mondiale. Le vittime vietnamite furono più di tre milioni; un milione le vedove, ottocentomila gli orfani. Distrutti tutti i ponti, gli ospedali, le scuole, le fabbriche. E Saigon contava, alla fine della guerra, – sono cifre di fonte americana – un milione di prostitute e prostituti, di “borsari neri”, di spacciatori di droga…
Dimenticare tutto questo e dimenticare la ferocia dei colonialismi che per secoli devastarono il Vietnam significa negare la complessità della storia per affermare una brutale, ottusa parzialità. La vittoria vietnamita rimane, nonostante tutto, il simbolo delle capacità dei Piccoli di non arrendersi allo strapotere dei Grandi.

2.

Questo spazio avrebbe dovuto essere riempito da qualche parola di gioia. Il 6 e il 7 maggio le telefonate si sono susseguite sino a sera, con l’allegria di chi vede realizzarsi un caro sogno: «Hai sentito? Il Papa dichiarerà martire monsignor Romero». Confesso di avere pensato: anche questa volta Giovanni Paolo Secondo mostra capacità profetiche che scavalcano la triste (per non dire peggio, molto peggio) prudenza della curia vaticana.
Non è accaduto.
Marco Politi su “La Repubblica” dell’8 maggio scrive: «Una sola mancanza o uno scandalo, come sostengono in molti: fra le testimonianze (nella cerimonia di ieri sera, nota mia) non si è ricordata nessuna vittima dei regimi cristiani, quelle dittature che specie in America Latina ammazzavano; recandosi ossequienti alla messa. “I martiri della civiltà occidentale cristiana” commenta il vescovo salvadoregno Rosa Chavez su Trenta Giorni. Il nome del vescovo Romero, assassinato in Salvador dalle squadracce della oligarchia di destra, dimenticato alla vigilia, viene infilato frettolosamente in una preghiera. Ma non la pronuncia il Papa, com’era stato preannunciato in Vaticano all’ultimo momento».
E ci sono da aggiungere due particolari che rendono tanto più grave l’afonìa del Papa. Il primo è che era stato lo stesso portavoce vaticano, Navarra, ad annunziare in sala stampa che il pontefice avrebbe nominato Romero; il secondo che neppure in quella preghiera si è parlato degli assassini di Monsignore; indicati per gli altri due vescovi di cui è stato fatto il nome: i quali assassini ” guarda caso! ” sono per l’uno un gruppo di indios e per il secondo un gruppo di guerriglieri colombiani. Insomma nessuno, tanto meno il Papa, tocchi gli amici del cardinale Sodano, i buoni vecchi generalissimi, i pii terratenientes!
Sento la risata sarcastica di qualche persona cara che mi addebita un’ostinata fedeltà a una Chiesa incapace di riconoscere i suoi figli migliori. Ma è la stessa Chiesa nella quale Romero stava consapevolmente, perché ci stavano anche i poveri. Essi, i poveri, continuano ad essere la mia bussola anche quando i cardinali preferiscono la “gente con l’anello al dito” (v. la Lettera detta di San Giacomo) e, come spesso avviene, i vecchi papi non riescono più a scostarsi dai loro “consiglieri”.