Linguaggio e politica
La partita da riaprire
La crisi spettacolare della politica a cavallo di questo passaggio di secolo su cui oramai si conta una letteratura sterminata, in Italia (da Tronti a Barcellona, a Revelli, per citare solo alcuni nomi) e non solo non è solo crisi del suo linguaggio, ma crisi del linguaggio in generale. Sul piano di una sintomatologia anche superficiale la politica e i suoi discorsi sono da tempo scivolati in una sorta di guscio vuoto: o eterei e sfuggevoli come l’immagine disseminata e spettralmente incorporea del medium televisivo, o silenziosamente brutali come il sovrapporsi fino a congiungersi di politica e guerra che fa da sottofondo alle inquietudini della “società del rischio”. In realtà, due forme parallele (e complementari) di cortocircuito, entrambe segnate dalla fine di qualsivoglia forma di mediazione politica e connotate dalla perdita di significato dei linguaggi attraverso cui questi processi entrano nel dibattito pubblico.
La mano gelida della mancanza di senso sembra aver steso la sua ombra sul discorso contemporaneo intorno alla polis: quello che un tempo fu il grande mito mobilitatore della modernità (per modernità io intenderei soprattutto un processo di sganciamento del sapere dei mezzi dal sapere dei fini, processo dunque autoreferenziale in maniera crescente: quello che Heidegger chiamerebbe tecnica) giace oggi sotto una coltre di ceneri. Come scrive Z. Bauman, riprendendo una delle ultime interviste di C. Castoriadis: «La caratteristica più evidente della politica contemporanea (…) è la sua insignificanza (…).
L’avvicendarsi dei governi — persino degli “schieramenti politici” — non è un fattore decisivo; al massimo è un’increspatura sulla superficie di un fiume che scorre ininterrottamente, uniformemente, inesorabilmente nella propria direzione».
Qualcosa scorre dunque, ma al di fuori da ogni riferimento e dalla possibile disponibilità di un senso. Per usare la formula efficace di J. Habermas e descrivere in termini più sociologici la questione: ciò che abbiamo davanti a noi oggi è «una modernizzazione sociale che persegue in modo autosufficiente il suo cammino» ma al prezzo di separarsi «dalle spinte di una modernità culturale che in apparenza è divenuta obsoleta».
Quanto questa insignificanza e obsolescenza si riflettano e si facciano più pesanti e invadenti con la spettacolarizzazione dell’agone politico e della sua parola è noto. Tanto più la parola sulla polis viene trasformata in parolasimulacro da spendere sul mercato della visibilità mediatica, in marchio capace di mantenere fidelizzato il pubblicoconsumatore, tanto meno essa si fa capace di un investimento passionale durevole, di un processo identificatorio non volubile. Con le parole di Jean Baudrillard: non a caso «noi viviamo nel mondo del referendum, proprio perché non c’è più un referenziale. Ogni segno, ogni messaggio ci si presenta come domanda/risposta (…) dove la risposta è indotta dalla domanda stessa, designata in anticipo».
Ma questa insignificanza non è solo il sintomo di un tempo che ha perso la forza della politicità: essa appare di più come l’esito, l’estenuazione di una lunga storia di abusi sul linguaggio che in un certo senso sono propri del politico (ma anche dell’accademia, per non dire delle religioni) qui inteso come esperienza di definizione, meccanismo di avvitamento soffocante del linguaggio sul reale. È il grande tema dell’ideologia come codice totalizzante che mira a stabilire una simmetria assoluta tra il linguaggio e il suo bordo (il suo limite, il suo aldilà): è quanto alcuni autori (Hillman ad esempio) definiscono letteralismo, parte integrante della vicenda della modernità, come vedremo più avanti. Si pensi solo all’uso della parola in un dibattito politico, il suo essere schierata come lama di coltello sulla linea dei reciproci fronteggiamenti, il suo voler concludere, definire, dominare.
Questo livello sintomatologico è certamente interessante, ma forse non sufficiente a comprendere fino in fondo la posta in gioco tra politica e linguaggio. Proprio da questa diagnosi della crisi della politica come crisi dei linguaggi politici si dovrebbe prendere spunto, infatti, per avanzare una tesi più radicale: all’aridità della politica corrisponde, più in profondità, un certo smarrimento del Linguaggio, qui usato con la maiuscola, in quanto tale. Questa coincidenza è meno sorprendente di quanto sembri dal momento che l’uomo, per dirla con la riflessione di M. Heidegger, «ha l’autentica dimora della sua esistenza nel linguaggio» e dunque si può dire che il linguaggio è la più profonda polis dell’uomo. L’essere, l’essere in comune e l’interagire sono d’altronde, prima di tutto, modalità di un linguaggio. L’appartenenza a un certo linguaggio, il suo esserne abitati, non è un’esperienza che ha a che vedere (solo) con la linguistica. Come ha scritto Arendt nell’apertura del suo The Human Condition: «Ogni volta che è in gioco il linguaggio, la situazione diviene politica per definizione, perché è il linguaggio che fa dell’uomo un essere politico». Lo stesso slittamento di significato del lessico politico, le trasformazioni dei suoi usi, sono rivelatori di una trasformazione più radicale del mondo storicopolitico. Si pensi ad esempio alla riduzione dello “spazio pubblico” a “spazio della pubblicità”, all’affermazione dei valori del “fare” contro quelli “dell’agire”, del comportamento (misurabile) contro l’azione (creativa), del sociale contro la politica, che la Arendt ha intuito con splendido anticipo alla fine degli anni cinquanta. Proprio analizzando questo genere di trasformazioni di linguaggio tra antichità ed età moderna, la Arendt ha avuto gioco facile nel dimostrare la radicale espropriazione della polis che la modernità ha messo in atto: slittamenti che sono palesi nel «rovesciamento dell’ordine gerarchico tra la vita contemplativa e la vita activa», nella traduzione di zôon politkon con animal sociale o nel discredito radicale in cui cadde nella modernità l’eccellere in pubblico, oppure nel fatto che la ricerca dell’immortalità venisse nei tempi nuovi «identificata con il vizio privato della vanità»; infine, nel differente significato che assunse la ricchezza privata.
Ricomprendere il nesso tra linguaggio e politica
Logos e polis sono le due più grandi eredità di cui il mondo classico ha fatto dono all’Occidente. Esse formano un connubio inestricabile sin dalle origini: l’animale che ha linguaggio è l’animale politico. Da principio, l’arte della polis sta nel saper governare il logos, e il logos trova la sua collocazione simbolica dentro lo strutturarsi della polis.
È ciò che sottolinea in uno studio classico sul tema J.P. Vernant: «Tra la politica e il logos c’è così un rapporto stretto, un legame reciproco. L’arte politica consiste essenzialmente nel maneggiare il linguaggio; e il logos, all’origine, prende coscienza di se stesso, delle sue regole, della sua efficacia, attraverso la sua funzione politica».
Questo intreccio può essere seguito nella storia d’Occidente nei modi più differenti. Hobbes e Locke sentono il bisogno di descrivere una logica e una teoria del linguaggio prima di dispiegare in pieno la propria politologia.
Nel secolo appena trascorso, il destino comune di logos e polis si rivela ancora una volta in maniera esemplare nella segreta alleanza tra il progetto di neutralizzazione della soggettività dal campo delle scienze sociali e l’idea strutturalista di rapportarsi alla cultura umana, allo stesso modo con cui un entomologo si comporterebbe con le formiche (secondo la celebre espressione di C. LéviStrauss), accompagnando cioè la parole e il parlante sullo sfondo.
È il linguaggio il nervo scoperto su cui lavorare per riaprire lo spazio del senso che sembrava dissolto dal progetto totalizzante della prospettiva semioticosistemica.
Pensare una alternativa ad un simile approccio significa portare il discorso filosofico a sporgersi fuori di sé. Portare la parola al di fuori del proprio limite linguistico. Recuperare una dimensione differente della lingua, la sua pregnanza, il suo essere portatrice di una profondità affettiva, pulsionale, di godimento, sembra il compito più necessario per rompere il sortilegio dentro cui si è cacciata la politica nel tempo dei simulacri e della spettacolarizzazione.
Maurizio Meloni L’autore ha da poco concluso un dottorato sulla cittadinanza europea presso l’Università di Catania.