Lavoro e globalizzazione

di Antoniazzi Sandro

Non è facile, oggi, parlare di lavoro. Non che manchino i problemi: anzi ne siamo stracolmi.
Ciò che ci manca, che è venuto meno, è il quadro di riferimento, il filo che tiene insieme le cose, canoni di interpretazione che ci consentono di capire, di collegare e di sintetizzare.
Il mondo del lavoro che conoscevamo è esploso, frantumato, decomposto; ciò che emerge non è ancora chiaro e definito. Per lo più si evidenziano tratti, dimensioni, aspetti che sono particolari, magari significativi, ma non sufficienti per darci un’idea esauriente dell’insieme.
Indubbiamente il punto obbligato di partenza per una riflessione sul lavoro è l’orizzonte della globalizzazione. Per quanto critici si possa essere al riguardo, essa è ormai un dato di fatto con cui bisogna confrontarsi, non per assumerla acriticamente quasi fosse una realtà naturale, ma come forma del modello di sviluppo dominante con cui fare i conti.
Ora il prepotente affermarsi di questo modello (tanto da suscitare l’affermazione critica di pensiero unico) è legato a due potenti strumenti che sono l’idolo indiscusso dei nostri giorni: la tecnologia e la finanza.

Tecnologia

La tecnologia elettronica, informativa e comunicativa ha conosciuto e continua a registrare innovazioni profonde e ad un ritmo incessante tali da sconvolgere abitudini di vita, organizzazione del lavoro, sistemi di vendita, funzionamento dei servizi.
I telefonini, la banca on-line, l’e-commerce, le fibre ottiche, internet e quant’altro delineano relazioni economiche, di vita e di lavoro molto diverse dalle precedenti.
Fra le molteplici caratteristiche, quelle che ci interessano perché più strettamente collegate al lavoro sono da una parte la loro pervasività e la loro elasticità – motivo per cui si diffondono facilmente in tutto il mondo anche per i collegamenti che consentono – e dall’altro la necessità di in cui si trova ogni paese di stare dietro a questo processo per non essere tagliato fuori dalla “comunicazione globale”.

Finanza

Ma non meno importante è poi lo sviluppo della finanza: esistono nel mondo milioni di miliardi (gestiti soprattutto dai Fondi di Investimento e dai Fondi Pensione) pronti ad investire dovunque ed in ogni momento per ricavare il massimo interesse, pronti altrettanto rapidamente ad abbandonare il campo.
Tutti gli Stati si sono in pratica arresi, eliminando ogni ostacolo ed ogni controllo al libero movimento della finanza, in larga misura di natura speculativa. Si potrebbe quasi dire che la globalizzazione consiste in questo togliete le tasse, eliminate ogni controllo, garantite il massimo di elasticità, concedete un’assoluta libertà di movimento ed allora la massa finanziaria verrà ad investire da voi.

Ricadute

Veniamo così alla ricaduta più pesante di questo processo sul mondo del lavoro: la permanente, martellante, asfissiante richiesta di aumento di flessibilità e di elasticità. Per lo più il discorso rimane astratto ed indefinito, quasi fosse un principio universale che non richiede spiegazioni e confronti, ma esso ha anche degli obiettivi precisi che in Italia sono prevalentemente due: la liberalizzazione dei licenziamenti (“l’ultimo tabù”, come è stato definito) e la riduzione della spesa pensionistica (e dunque del costo del lavoro).
Vi sono anche discorsi rivolti alla sanità, alla scuola, al sociale: ma in questo caso, anche se i discorsi vengono volontariamente mischiati per confondere le idee, l’interesse è un altro, e cioè la privatizzazione dei settori che possono offrire lauti guadagni (negli USA la sanità e l’istruzione sono i due settori più importanti dell’intera economia).
L’elasticità se la guardiamo non dal punto di vista del singolo lavoratore (per il quale può essere più o meno accettabile in base alla sua situazione concreta), ma dal punto di vista generale significa un enorme aumento del potere da parte del padrone, per la possibilità di articolare come meglio ritiene la sua richiesta di lavoro.
La tecnologia serve a dividere ed atomizzare il lavoro (e dunque a superare la grande fabbrica) e a delocalizzarla quando necessario, l’avvento del potere finanziario ha sottratto una quota importante del reddito generale al lavoro.


Aspetti positivi e negativi

Naturalmente siamo in una fase di notevole sviluppo e dunque andrebbe sviluppata anche l’altra dimensione, quella più positiva: aumenta la ricchezza, la disoccupazione registra segnali di arretramento, si sviluppano nuove professioni specializzate, il lavoro è più internazionalizzato.
Questo è spesso apprezzato dai giovani che hanno più possibilità di viaggiare, di farsi esperienze in altri paesi, di aprirsi ad altre culture.
Ma anche su questo versante non mancano gli aspetti critici e cioè:
– un forte aumento delle disuguaglianze con picchi inauditi di guadagno per determinati ruoli ed un forte incremento dei lavoratori-poveri;
– un valore del lavoro ormai del tutto individuale, mentre scompare il senso sociale del lavoro.
La domanda che scaturisce inevitabilmente dopo queste analisi è quella storica: che fare?
Naturalmente il movimento sindacale può sviluppare tante battaglie aziendali, locali, generali di difesa e di affermazione dei diritti, ma non è difficile constatare l’inadeguatezza e l’insufficienza attuale.
Le idee e gli orizzonti entro cui si combatte sono carenti: mentre si combatte occorre elaborare paradigmi nuovi e questi paradigmi non nascono tanto dagli intellettuali, ma dal concreto lavoro di sperimentazione sociale.

Ripartire dal basso

Bisogna, in altre parole, ripartire dal basso, ricreare un rapporto con la base, dar vita a forme associazionistiche di base che siano in grado di affrontare nella pratica questi problemi.
A questo fine le esperienze dovrebbero privilegiare:
a) la formazione di socialità e solidarietà nuove, contro l’esasperato individualismo odierno (anche nel lavoro);
b) il partire dai problemi emergenti che sono per lo meno la spia di quanto sta succedendo (il lavoro atipico, il lavoro degli immigrati, lavorare in Internet, ecc.). Si tratta di condizioni che possono determinare cambiamenti di rapporti;
c) stabilire rapporti di solidarietà internazionali tra lavoratori a livello di base. I sindacati europei, per non dire di quelli internazionali, sono di fatto un insieme di sporadiche riunioni dei massimi dirigenti nazionali, più alcuni uffici.
Bisogna mettere in moto un grande movimento di base non burocratico tra lavoratori a livello mondiale: una rete informativa, di elaborazione, di lotte.

Mi scuseranno i lettori che si attendevano risposte più esaurienti. Dico spesso che di fronte alla globalizzazione i nostri discorsi sono come voler dare forma ad un mosaico di mille pezzi di cui abbiamo in mano solo venti o trenta tessere.
Non è inutile cercare di ricostruire il quadro, soprattutto se questo serve ad andare nella direzione giusta ed aggiungere una tessera in più a quelle che abbiamo in mano, per fare un altro passo in avanti.

Sandro Antoniazzi
Fondazione San Carlo
Milano