Lavorare per aiutare e non per essere aiutati

di Konteh Bayuku Peter

Lontano dalla Sierra Leone

Proseguire i miei studi in Occidente era il mio desiderio: è un modo sicuro di emancipazione sociale. La guerra civile provocata dalle difficoltà economiche nel mio paese, la Sierra Leone, diventò un motivo in più per lasciarlo, appunto per studiare e poi tornare indietro.
Per fortuna trovai una borsa di studio: l’unica meta possibile al momento era l’Italia. Accettai, ma non senza paure. Prima di tutto non conoscevo la lingua. Secondariamente i titoli di studio conseguiti in Italia non valgono in Sierra Leone e viceversa; infine, un mio amico italiano mi aveva detto che per gli extracomunitari in Italia non c’erano ancora molte possibilità di inserimento e di carriere. Comunque, partii.
Le prime impressioni avute dell’Italia furono positive: esteriormente appariva come un Paese progredito, la cucina era molto sofisticata e diversificata, in genere l’accoglienza era buona.
Poi dovetti per forza imparare la lingua, come primo strumento per vivere e realizzare il mio sogno. L’italiano era il mio incubo. Mi iscrissi a un corso in Scienze Sociali presso la Gregoriana. Riuscii a finire gli studi senza preoccupazioni finanziarie, grazie alla mia borsa di studio.
Mi stupiva però il fatto che la legge italiana proibisse agli stranieri di lavorare onestamente per continuare a studiare. Infatti, vedevo le difficoltà economiche di tanti studenti stranieri.
Alla fine dei miei studi avevo ottenuto una laurea in filosofia, conseguita già in Africa e un Master in sociologia dello sviluppo, un diploma in import-export e uno in informatica di base, conoscendo bene anche l’inglese, lingua ufficiale del mio Paese, tutti titoli ottenuti in Italia.

Trovare un lavoro

Era arrivata l’ora di trovare un lavoro. Fu il secondo incubo. Dovevo lavorare per questi mantenermi, formare una famiglia, aiutare i miei in Africa, risparmiare per il mio futuro rientro. Quindi non pensavo nemmeno di tornare a casa, anche per il perdurare della guerra.
Avrei dovuto cambiare il motivo del permesso di soggiorno, ma come studente non potevo lavorare. C’erano, inoltre, altre difficoltà burocratiche, facilmente immaginabili. Mi sentivo disorientato perché non era chiaro a volte quello che dovevo fare. Infine, non tutti gli impiegati degli uffici a cui mi rivolgevo erano competenti e disponibili ad ascoltare.
Per fortuna il mio italiano era migliorato notevolmente, e questo mi servì per districarmi nelle maglie della burocrazia. Intanto, rispondendo con telefonate a inserzioni di offerte di lavoro, mi accorgevo che molte persone, comprendendo che io ero extracomunitario, anche se gentilmente, si dicevano non interessate. Mi mancava, forse, quella che in Italia voi chiamate "raccomandazione"? Non ero in grado di trovarla.
Durante il periodo in cui cercavo lavoro, scoprii la vera natura e la mentalità di molti italiani, la chiusura del sistema e la difficoltà di avere un lavoro onesto, comprendendo la ragione per cui alcuni studenti stranieri alla fine lasciavano l’Italia, per trovare lavoro altrove. Credevo che l’unica mia possibilità fosse di trovare lavoro in un’azienda straniera o iniziare un’attività in proprio con costi notevoli, oppure fare lavori molto umili. In effetti, tutti gli impieghi statali sono riservati ai cittadini italiani, perciò non potevo pensare di trovare un lavoro nello stato. In quel periodo capii anche che gli studi socio-umanistici da me seguiti non valevano molto nel mercato del lavoro occidentale. Perciò avrei desiderato seguire dei corsi per acquisire competenze più utili sia nel mercato del lavoro sia per un furto rientro nel mio Paese.
Intanto realizzavo che cosa significa la disoccupazione: povertà, alienazione, disperazione, a volte incubo, paura e forte insicurezza. Con essa viene meno ogni capacità lucida di progettare il futuro. Tale fragilità può diventare facile preda di sfruttatori senza scrupoli.
Con la pazienza e la tenacia, attraverso la risposta ad un annuncio sul Corriere della Sera, ho trovato un lavoro onesto e regolare, come operatore telefonico in una multinazionale svedese che ha delle sedi anche in Italia.
Mi ha fatto piacere lavorare: lavorare significa poter vivere, essere stimati dagli altri, andare dove altri vanno, aiutare e non essere aiutati. Lavorare, insomma, vuol dire speranza, responsabilità, competizione, rinnovamento e, soprattutto, integrazione. Mi sentivo orgoglioso di mantenere la mia famiglia e di aiutare i miei in Africa, in particolare garantendo la scolarizzazione ad un gruppo di sei studenti. Ci tenevo a lavorare bene e tanto, anche per avere possibilità di fare una piccola carriera.
Oggi lavoro otto ore per la mia azienda, inoltre sono consulente assicurativo per gli stranieri e nel tempo libero promuovo un progetto di realizzazione di una radio di servizi per stranieri, gestita principalmente da loro. Collaboro anche con il Movimento Cittadini dal Mondo di Milano. Mi prodigo, poi, per trovare legami di solidarietà e aiuti concreti tra associazioni non governative, scuole elementari e bambini del mio villaggio.

Riflessioni e consigli

A uno straniero debole che venga in Italia per lavorare, consiglierei di armarsi di tanta pazienza e di non perdere la speranza né di abbandonare i suoi sogni a causa di delusioni e difficoltà. Inoltre, gli sarà sicuramente utile frequentare corsi professionali, a seconda delle esigenze, sempre mutevoli, del mercato del lavoro. Infine è bene farsi un risparmio per il futuro e non lasciarsi travolgere dalle false necessità del consumismo.
Ritengo anche le istituzioni debbano essere snellite, rendendo più accessibili i servizi. Occorrerebbe, a mio modesto parere, formare meglio il personale perché si mostri competente, disponibile e professionale.
Alla politica e alla scuola spetta il compito di eliminare i pregiudizi e promuovere l’integrazione piena, servendosi delle capacità specifiche dei diversi immigrati, non solo in lavori umili e pesanti, ma anche in quelli più importanti.
Questo per garantire una competizione e quindi più alti risultati, non solo a livello internazionale, ma anche locale.
La mia storia personale è una storia di sopravvivenza, aiuto e competizione, oltre che di speranza: una storia che migliora non solo me stesso, ma spero anche un po’ l’Italia e la mia amata Sierra Leone.