La scuola interpreta la realtà?
«Non essere cieco,
non mentire,
non essere complice».
Simone Weil
Lo scorso anno nella 5ê A, alle soglie dell’esame di maturità, si fa un bilancio del cammino fatto. Roberta interviene, col suo riflettere leggero e profondo e i compagni ascoltano in silenzio: «Per diversi anni ho pensato che coltivavo me stessa esercitandomi ad assumere il maggior numero di punti di vista sui problemi, per scegliere il più economico. Matematica, fisica, scienze, critica testuale… Tutto mi portava a pensare che c’era sempre un punto di vista ulteriore, possibile, legittimo. Nulla di assoluto, tutto aperto. Relativo. Tutto, al fine, spiegabile, comprensibile, descrivibile. Salvo la provvisoria inadeguatezza di informazioni e di elaborazione… Senza accorgermi mi sono messa a estendere questo modo di pensare anche ai problemi etici e sociali».
Poi, in quarta, la compagna di classe malata di leucemia, Elena, muore. Ed è un’insopportabile ingiustizia. Silenzio duro, rabbia. Dio chiamato come imputato. E la lenta e difficile maturazione: «forte come la morte è l’amore». Non di più, come. E il vuoto va tenuto aperto, come la comunione antica. E in quinta lo studio della Shoà, dei totalitarismi, l’incontro con la questione palestinese e la realtà dei profughi bosniaci. Aprono uno squarcio. «Non è vero che tutto è relativo: il male non è relativo, è assoluto! Non è giustificabile, al più è umanizzabile vivendolo come dolore, come sofferenza personale. Resistendogli, nella cura, o nell’indignazione civile, o nella compagnia».
Là dove si spaccano i grandi edifici dei sistemi della postmodernità (dove nidifica la colomba del Cantico) alla banalità e all’omologazione si può far fronte. Il relativismo etico, l’ipertolleranza scettica e irresponsabile di ogni bene e di ogni male possono venire messi a nudo, svelati nella loro vuotezza, nella loro connivenza. «Non essere cieco, non mentire, non essere complice» scrive Simone Weil, per sé e per ognuno di noi.
Essere una generazione vitale
Ho pensato alla difficile identità della mia generazione, alla sua riscoperta “in viaggio”, a ciò che colgono i miei ragazzi all’università. In una lettera dal campo di Westerbork, nel dicembre 1942 la giovane Etty Hillesum (aveva 28 anni) scriveva a due amiche dell’Aia: «Non si tratta di conservare questa vita ad ogni costo, ma di come la si conserva… Se noi abbandoniamo al loro destino i duri fatti che dobbiamo irrevocabilmente affrontare se non li ospitiamo nelle nostre teste e nei nostri cuori, per farli decantare e divenire fattori di crescita e di comprensione , allora non siamo una generazione vitale» (Etty Hillesum, Lettere 194243, Adelphi). Etty, trasferita da Westerbork ad Auschwitz vi morirà nel novembre del 1943. Nella stessa lettera aggiungeva: «La storia ha messo sulle nostre spalle un destino di dimensioni davvero straordinarie, e noi dobbiamo trovare la grandezza di stile commisurata al peso eccezionale di questo destino». La situazione è “ultima”: le donne e gli uomini si trovano «rivestiti soltanto dell’ultima camicia della loro umanità. Si trovano in uno spazio vuoto, delimitato da cielo e terra, dovranno riempirlo da soli con le loro potenzialità interiori là fuori non c’è più niente».
Messi alla prova “nei nostri fondamentali valori umani”. Una generazione vitale sa che «non sono i fatti che contano nella vita, conta solo ciò che grazie ai fatti si diventa». Una generazione vitale di donne e di uomini che hanno “lavorato a se stessi”, persone creative alle quali i giovani possono dire, come disse Osias Kormann a Etty, «hai saputo creare della vita attorno a te».
C’è una metafora con cui Etty cercava di comunicare come si sentisse il 3 luglio 1943: «La vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo… Quando un ragno tesse la sua tela, non lancia forse i fili principali davanti a sé e ci si arrampica poi sopra? La strada principale della mia vita è tracciata per un lungo tratto davanti a me ma arriva già in un altro mondo».
Perché gli adulti oggi fanno così fatica a «lanciare fili davanti a sé»?
Educazione come racconto resistente
L’evanescenza che rischiano molti percorsi biografici che sono portati, nel relativismo e nel disorientamento, a non consistere da nessuna parte espone a ottusi adattamenti. Mentre altri sono spinti a trovare appiglio nelle “identità rifugio”, solide e “inventate”, dei nazionalismi, dei localismi, dei fondamentalismi.
La scuola può essere il luogo per provare dialoghi che tessano un’interpretazione dell’esistenza? Una ripresa in mano del filo di decisioni in responsabilità e senso? Se l’educazione si fa “pratica delle libertà”, secondo la lezione di Freire, ragazze e ragazzi sono messi nella condizione di connettere i saperi e i racconti, le abilità e le informazioni alle dimensioni di emancipazione umana o di cura responsabile.
E diventa possibile ricomporre e tenere aperta una identità “multiplex” (e non “simplex”): identità contestuale, costituita da ospiti stranieri, praticoetica. In cui scoprire che “io sono la mia storia, non il mio destino”, non essenza ma tendenza.
Resistere al restringersi dell’area dell’esperienza
Provare a sentire il gusto dell’esistenza come esperienza specifica, come storia: aperta in un mondo «nel quale si è già parlato prima di noi» (come annota Paul Ricoeur), che ci è consegnato attraverso dimensioni vitali, materiali e simboliche. Storia narrata nei vincoli di uno scenario con cui misurarsi con un “senso della realtà” nuovo. Per far conoscere questo “senso della realtà” ci si chiede di lavorare in due direzioni: ascoltando il desiderio che abita la realtà (desiderio di rispetto, di cura, di compagnia e destinazione buona), e non guardando la realtà per plasmarla nel desiderio di io narcisisti; costruendo dialoghi tra culture e saperi, tra prospettive generazionali e di genere, che disegnino delle rappresentazioni abitabili della realtà (noi abitiamo rappresentazioni che, se dialoghiamo, si avvicinano rispettose alla realtà, e al suo mistero).
Resistere al riconoscimento e al disconoscimento dell’altro
L’imbarazzo più profondo, la sfida più sottilmente evitata è, oggi, l’incontro/conflitto con l’altro”. È sempre più frequente leggere l’allarme per la “scomparsa” della comprensione di ciò che accade all’altro. L’altro, l’altra rimane il desiderio e la mancanza più profonda; l’altro, l’altra è l’idolo padroneggiato dalla scienza, dalla tecnica, dall’economia in un mondo che non vuole più avere confini. Le fondamentali esperienze della condizione umana le guerre, la religione, la politica, l’amicizia, l’amore, la poesia, la natura e le sue catastrofi richiedono, per essere vissute e comprese, un’unica cosa: che il senso che ciascuna/o dà ad esse abbia un significato nel linguaggio dell’altro, che lo sguardo dell’altro abbia rilevanza e fondatezza e sia implicato in ciò che accade (L. Boella, Per amore di altro, 2000).
A scuola si potrebbero, precocemente anche, dipanare le trame dei diversi “noi” cui apparteniamo e tra i quali ci ritroviamo (il noi linguistico, il noi simbolico, quello religioso, quello economico, quelli politicoideologici e di tradizione del diritto…). Tra questi e altri noi (il “noi” dei diritti universali; il “noi” dell’appartenenza di genere…) l’io si identifica e narra: identità più alterità. E l’altro, incontrato, è riconosciuto come alterità più identità. Ritrovo l’insegnamento femminile dell’umano. Certamente le rappresentazioni della speranza (che è sempre, per essere tale, speranza dell’improbabile ma giusto), del “sogno di una cosa”, possono avere la capacità generativa del convocare sull’avvenire. A tutti noi occorre, dice Maria Zambrano in Delirio e destino, 2000, rifare la nostra nascita, tutti siamo qui a “rimettere al mondo il mondo” che noi stessi siamo. “Desnacer”, disnascere, nuovo essere al mondo, diverso modo di costruire e pensare la storia. Perché la storia non sia storia sacrificale, luogo di vittime e di idoli: sacrificati i primi sugli altari dei secondi. “Desnacer” perché non sia più così. Non tornare a una fantasmatica origine: vivere il proprio essereperlanascita. L’immagine, la rappresentazione è, allora, capacità di avere/tenere in sé anche altro/i. Come le madri. A volte come gli artisti, i pensatori e i poeti.
Rompere la resistenza dei saperi a riconoscere il loro dovere
C’è una nuova dimensione della razionalità strumentale e dell’azione umana nella civiltà tecnologica che richiama a nuove responsabilità. Le catene causali irreversibili, la portata dilatata dell’agire tecnologico (nel tempo e nello spazio), l’imprendibilità e l’irreversibilità riportano nel cuore della ricerca una dimensione di incertezza. Essa può essere feconda.
L’incertezza riporta a chiedermi del dovere, della prefigurazione di un mondo buono e giusto. Siamo abituati a pensare la responsabilità “a valle” delle scelte, sulle conseguenze delle quali si è chiamati a rispondere. Effetti (di scelte) che ci vengono imputati, rispetto ai quali dobbiamo a volte risarcimento o espiazione. Oggi di certi effetti non possiamo rispondere così: avremo effetti (irreversibilmente) tra molto tempo, su persone che non potremo risarcire e che non potranno neppure imputarcelo.
La responsabilità va spostata “a monte”, prima della scelta, nella scelta stessa (nell’astenersi da essa, anche, o nel darle una certa forma). Anche rischiarando il dovere del sapere. Il limite dei saperi, la loro necessaria interconnessione; per sapere di non sapere. Di non sapere cosa non si sa, anche. La frattura tra tecnoscienza iperspecializzata (che è tentata dalla rinuncia a spiegare) e conoscenza a disposizione dei cittadini (che sono tentati dalla rinuncia a capire) ha portato a parlare di “democrazia cognitiva”. La richiesta di una pluralizzazione dei luoghi (oltre che dei modi e dei tempi) della conoscenza, della elaborazione di orientamenti e delle decisioni, lega oggi la diffusione del potere alla riforma del pensiero, e coinvolge scienziati, operatori culturali ed educatori.
Linguaggi e istanze diverse, diverse dimensioni dell’umano chiamate a interagire e confrontarsi, possono permettere di fare crescere democrazia cognitiva: non attraverso il fare addizionare conoscenze alle persone, ma attraverso la organizzazione, la ricomposizione delle conoscenze, attorno ai luoghi ed alle questioni della vita, quelle che fondano i legami di convivenza, la definizione e la pratica dei significati e dei valori (i luoghi del nascere, della sofferenza, dell’accompagnamento al crescere…). Una articolazione dei saperi che non è né superspecialismo, né sola divulgazione, bensì loro riconduzione a elementi essenziali ed al racconto della vita.
Ivo Lizzola
insegnante nei licei di Stato