La Shoah dentro
Francamente non so quale sia stata, in diciotto anni di carriera d’insegnamento, la mia lezione peggiore. Probabilmente ce ne sono state molte e altre arriveranno in futuro. Ricordo invece distintamente quale sia stata la migliore, anche perché le mie lezioni belle non sono poi così frequenti.
Quando, nel febbraio 2000, ho accompagnato i miei alunni del Liceo Scientifico al campo di sterminio di Sachsenhausen, 30 chilometri a Nord di Berlino, era una giornata fredda e plumbea, con una pioggia gelata che entrava nelle scarpe e un’umidità che penetrava nelle ossa. I campi di sterminio sembrano sempre un doloroso film in bianco e nero, dove non emerge mai nemmeno un fascio di luce né si sente un briciolo di calore. In fin dei conti non comunicano nulla, semplicemente perché in un luogo di annientamento non c’è nulla da comunicare. L’efficacia della lingua tedesca li ha descritti cinicamente e dettagliatamente come "Vernichtungslager". Appunto: "Campi di annientamento". Questa è la loro ontologia e al tempo stesso la loro ermeneutica. Non c’è nulla da dire, nulla da spiegare, nulla da interpretare. Esprimono, da se soli, il nulla che sono e l’annullamento che hanno provocato.
Pertanto, in quella mattina gelida e apocalittica, io non ho parlato. Fare una lezione in silenzio, fuori da una scuola, lontano da una cattedra e vicino a un’enorme cimitero senza nomi né tombe, conferisce una sensazione sinistra, ma al tempo stesso tranquillizzante. Non sarebbe stato necessario cercare obiettivi didattici né forme comunicative dei contenuti e non sarebbe stato nemmeno indispensabile recuperare un ordine intellettuale e mentale che ogni giorno tutti noi cerchiamo di fare. Come un operaio prepara i propri strumenti di lavoro e un commerciante riordina il negozio prima di aprire, un insegnante prepara ogni mattina la sua testa, cercandola insistentemente anche quando vorrebbe lasciarla altrove. Ma in quel giorno, dentro quel contesto gelido e apocalittico, non è stato necessario. Il nulla si è imposto prepotentemente nella sua efficacia drammatica e si è presentato senza timidezze. In fin dei conti i nazionalsocialisti, nel loro delirio di onnipotenza, hanno finito per rappresentare se stessi in un luogo che li ha resi eterni nella loro diabolica determinazione distruttiva. Non è più possibile nasconderli o ridurli.
Il senso del "Vernichtungslager" è tutto qui. Esso rappresenta l’indicibile, l’inspiegabile, l’incommensurabile, l’inescusabile e soprattutto non può trovare un esito razionale, né può dare risposte certe e definitive alle nostre domande. Ci dice soltanto che non possiamo mai arrenderci davanti all’orgoglioso senso di onnipotenza verso l’altro che vive fuori da noi. Ci dice ancora che la ricerca disperata di un’identità assente provoca l’illusione di un’identità apparente e che quest’ultima apre la porta soltanto ed esclusivamente a un destino di distruzione e di morte. Che cosa è l’identità proclamata a vuoto se non una sovrastruttura per mascherare le nostre insicurezze? Che cosa è il nemico dichiarato se non l’oggetto che serve a liberarci dalle nostre debolezze?
Spesso il nemico è proprio la nostra debolezza. Come avrebbe potuto l’Impero Romano sopravvivere a lungo se non avesse trovato nemici? Come avrebbero potuto reggersi perfino alcune istituzioni religiose, che spesso hanno cercato ragioni per condannare e obiettivi da abbattere? Come avrebbe potuto lo stalinismo più cupo mantenersi vivo senza l’idea della controrivoluzione? Tutti questi eventi trovano un’unità angosciante nel desiderio di individuare nel nemico il nutrimento per la propria fame.
Tuttavia oggi la Shoah ebraica ha aperto una serie di interrogativi acuti e profondi, davanti ai quali non possiamo ritrarci. La Shoah è penetrata in profondità nel cuore, nella coscienza, nella carne e nel sangue delle vittime. Forse è vero che ogni torto devasta sempre l’interiorità di chiunque. In un atto di violenza contro un essere umano c’è sempre un segno indelebile che resta come il buco provocato da un chiodo. Questo buco resta lì e spesso torna come una ferita che non si rimargina mai e si fa vedere senza rispetto per chi sta male.
Osservate la rabbia di Israele contro i palestinesi. Non si può spiegare diversamente la tenacia disperata di un popolo che si abbatte su un nemico cercato e inventato, infierendo sul suo corpo. Che senso ha? Che motivo c’è? Eppure Israele, anche se con la coscienza e con l’intelligenza che una convivenza con i palestinesi sia ormai nelle cose, si ostina rabbiosamente a non vedere la realtà. Abbattendosi contro i bimbi di Khan Yunis e di Hebron, si rovescia contro l’immagine dei carnefici di ieri. È orribile pensare che il volto di un bimbo innocente di un campo-profughi sia sovrapposto a quello di un ufficiale delle SS, ma ogni giorno che passa sembra suggerircelo. Il corpo moribondo e innocente del popolo palestinese, sul quale spesso Israele infierisce, è come il cadavere colpevole di Mussolini, esposto in Piazzale Loreto. Si racconta che una donna del popolo gli avesse sparato addosso cinque colpi, uno per ogni figlio morto in quella guerra assurda. Forse il suo desiderio sarebbe stato quello di risuscitarne il cadavere per un momento e poi di finirlo di nuovo. Giustiziare un morto è un atto di disperazione, ma evidenzia infallibilmente una frustrazione umana e una rabbia dovuta e necessaria, quasi tenera.
Israele ha la Shoah dentro
Ecco perché, nella nostra opposizione a questo Israele contemporaneo, noi dobbiamo contestualmente anche il rispetto per un popolo che non ha mai smesso di piangere la morte orrenda e ingiustificata di una parte di sé.
Ecco perché forse Piero Ostellino oggi non aveva tutti i torti, quando rivendicava per Israele il diritto di non vedersi separare dai propri governi. Nella sua storia Israele si è sempre considerato quasi un popolo-persona che si relazionava con Dio, un corpo che sopravviveva armonicamente in ogni istante della vita. Il peggio e il meglio di Israele erano, sono e saranno eternamente la stessa cosa e la stessa carne, la Torah è la stessa ragione di vita, la Herez Israel è respiro vitale e condizione esistenziale di riconoscimento di sé. Tutti uniti, tutti insieme.
Ecco perché oggi Israele trova nella sua terra, difesa assurdamente con unghie ormai insanguinate e spezzate, il sigillo della propria esistenza. Si aggrappa alla terra come un bimbo difende, con tutta la forza che ha, il giocattolo che la madre gli ha regalato. Dopo gli orrori della Shoah, Israele ha bisogno della protezione di un Dio materno e coccolone e lo rincorre dietro le sue gonne.
Ecco perché tutti gli altri sono nemici potenziali o reali, come se improvvisamente fossero diventati risposte alle domande più veementi: «Perché ci hanno annientato? Perché ci hanno fatto a pezzi? Perché? Perché non ci lasciano tranquilli tutti insieme qui?». Appunto. È il perché senza risposte che porta Israele a soffrire una condizione di allucinazione visiva che trasforma gli innocenti in simboli infernali e a diffidare di chiunque. Quello che fa impressione non è il fatto che oggi Israele abbia molti nemici, ma che non abbia nemmeno un amico. La realtà del loro vicino di casa che si faceva delatore con i nazisti si è trasformata nell’immaginazione devastante di una continua delazione collettiva ai propri danni.
Ecco perché un popolo-bambino, che si è sempre fatto condurre per mano da un Dio-padre tenerissimo, è diventato all’improvviso un bambino insicuro, spaventato e inutilmente aggressivo, un bambino bisognoso di un affetto rassicurante e di un’attenzione speciale. In fin dei conti Israele ne è uscito pesto, sanguinante, gonfio, emaciato, ma orgogliosamente vivo. Deve soltanto crescere, rimarginando faticosamente nel proprio corpo le ferite sanguinanti che altri gli hanno inferto.
Dite a una donna che ha subito una violenza selvaggia e brutale che cosa prova quando vede un uomo e poi capirete Israele.
Ecco perché io sarò sempre al fianco di un palestinese che muore sotto il fuoco di Tsahal, perché sento che anche lui è vittima della Shoah. Vorrei correre incontro a chi ha sparato per dirgli: «Lascia stare. Non vedi che non è un SS?». Ma come si può?
Come una persona che ti vuole bene e che desidera rassicurarti, ti bacio, Israele, e ti dico che si è trattato soltanto di un brutto sogno. Poi ti darò subito uno schiaffo e ti urlerò di crescere e di diventare grande, una volta per tutte.
E vedi di farla finita. Il tuo Dio è anche il nostro e tu non sei il solo cuore del mondo.