La morte non chiude la storia

di Stoppiglia Giuseppe

«Dio non ha creato la religione
ma il mondo».
[F. Rosenzweig]

«Alcuni,
sotto un esilio di stenti
sono dei re».
[Erri De Luca]

Appoggiando lo sguardo
sui monti

Maria è morta appoggiando lo sguardo sui monti della sua valle in un travolgente giorno di sole estivo, che faceva struggente il verde dei boschi, argento l’acqua dei torrenti, oro la sterpaglia bassa, leggenda e fiaba il canto degli uccelli. Il sole onesto, pur giocando a rimpiattino tra le foglie degli alberi, ha fatto da guida alla sua anima, mentre i nostri occhi si lavavano in lacrime di rugiada, e le mani accarezzavano il suo splendido volto di donna tenerissima.
Nella stagione della vita in cui si impone la ricerca di una propria identità, Maria ha potuto gustare il valore dell’inquietudine che, contro ogni desiderio definitivo, spinge nella direzione di un’identità dinamica.
Ha concepito l’esistenza umana come viaggio duro e rischioso, un soffrire, un peregrinare, un errare, un cercare la propria dimora nascosta… nella coscienza della luce.
La tentazione di guardare indietro, come Lot, era continua. Anche la nostalgia dell’Egitto con le sue cipolle sicure. Maria, invece, non sapeva dove andava, sapeva soltanto che doveva lasciare. Ha conosciuto solo l’asprezza piatta del deserto, non la mappa della “terra promessa”.

Un cammino senza appigli

Gesù in croce urla disperato perché tutti, perfino il Padre, lo hanno abbandonato. L’avventura della fede non si iscrive nel cerchio dell’eterno ritorno, ma nella linea retta di un cammino senza appigli, senza sicurezze.
Un pensare diverso il suo, che nasceva da uno sguardo diverso: «Gli occhi dei poveri – diceva – sono diventati lenti di analisi e filtro con cui cerco la verità in un mondo spesso di menzogna e non di amore».
Si riconosceva nelle parole di P. Tillich: «La nostra vita religiosa è riconoscibile per l’immagine di Dio che l’uomo si crea. Penso a quel teologo che non aspetta Dio, perché lo possiede in una sua costruzione dottrinale. Penso a quello studente di teologia che non aspetta Dio perché lo possiede chiuso in un libro. Penso a quell’uomo di chiesa che non aspetta Dio, perché lo possiede racchiuso in un’istituzione, penso a quel credente che non aspetta Dio, perché lo possiede nella propria esperienza. Non è facile sopportare di non avere Dio, di doverlo aspettare; non è facile predicare ogni domenica senza mai pretendere di possedere Dio e di poterne disporre».
E aggiungeva: «Non è facile annunciare Dio ai “bambini di strada” e ai “favelados”, agli scettici e ai “bigotti”, spiegando nello stesso momento che anche noi non possediamo Dio, ma dobbiamo attenderlo. Guai a noi se perdiamo la dimensione dell’attesa e dell’ascolto…».


La malattia: esperienza
di dilatazione interiore

Se la malattia, l’essere ammalati divide, separa, rinchiude materialmente e ripiega in una misteriosa sensazione di annullamento, è anche esperienza di dilatazione interiore. Lei ha cercato di tramutare la sua abissale sofferenza in dolcezza e intimità, a volte in forza ed urlo, scoprendo che le orecchie “dei più” erano diventate sensibili solo al tintinnio del denaro, garanzia di quella sicurezza cui lei aveva rinunciato. Rinuncia che non voleva essere silenzio e neppure abbraccio di consolazione, ma doveva partorire bellezza. Raccontava agli “adattati” quel residuo di speranza che è il “non-adattamento”: avvelenando la loro quiete e dissolvendo la loro stabilità.
La morte, comunque, disorienta, ti fa il vuoto dentro ed intorno. Lacera e distrugge. Ti umilia, ti toglie l’esercizio della parola, perché vittoria sulla vita senza scampo. Il dolore della morte è di per sé “smisurato”.
Ci sono persone che si credono divinità, mentre sono solo poveri idioti. Altre, invece, si avvicinano come un’ombra che non ti vuole disturbare, e sono piene di saggezza. Saggio è chi sa vedere la realtà non solo con gli occhi della ragione ma anche con quelli della sensibilità. Saggio è chi sa sperare senza fretta. Sa di non arrivare prima mettendosi a correre, e che il meglio della vita continua a restare nascosto nel duro mistero del cuore delle pietre.

Le ragioni di
una stanchezza

Ci sono momenti in cui il sentimento dell’impossibilità di procedere oltre diventa generale; consumate le riserve del fervore nell’impegno, c’è il bisogno di sedersi, rinunciando a camminare. Le circostanze attuali mi sospingono a riflettere sulle ragioni di questa stanchezza, che non sono immediatamente personali, sono esterne, condivise, diventano tonalità collettive, clima storico.
Fino a che c’è un rapporto di corrispondenza tra le speranze che ci animano e l’orizzonte della nostra azione, la ragione del camminare sopravvive. La meta è lontana, ma è visibile, le forze necessarie per raggiungerla sono disponibili; è necessario stringere i vincoli della concordia, della collaborazione, per superare le difficoltà in cui siamo.
Ma ci sono momenti in cui, invece, non trovando più nessuna corrispondenza, le risorse della speranza s’illanguidiscono e noi cadiamo nella stanchezza spirituale.
Si rischia davvero di cadere in quella disperazione anestetizzata che è l’ignavia. Non tutti i disperati si strappano i capelli; si siedono, tirano a campare, accettano la misura del giorno, non sperano altro, sono rinunciatari dal punto di vista degli ideali morali. Il numero maggiore di disperati è di questo tipo. La disperazione che grida è già un sintomo di nobiltà, ma c’è la disperazione che non grida più, che non trova nemmeno motivo di gridare.
E questa è immensa.


Il pensiero unico

L’assordante messaggio di questo inizio di millennio è: non potete far niente! Inutile e prepotente proporre. Inutile e vetero elaborare invece che percepire… Ci siamo delegati al comando delle “leggi dell’economia” che non sono le peggiori, guarda cosa è successo a tentar di farne a meno… Come abbiamo permesso questo spossessamento, noi che restiamo orgogliosamente muniti di una coscienza infelice?
È difficile immaginare quello che si potrebbe fare a livello globale per rendere la vita più umana, per ridurre i livelli di disumanità presenti nel mondo. Però è certo che se mai questa possibilità sussiste, essa è correlata con la pratica quotidiana di un’umanità, fatta di attenzione al volto e alla vita degli altri, di compassione non paternalistica per chi è schiacciato dalla vita.
Oggi il “pensiero unico” è di casa anche in una chiesa incapace di meta-noia evangelica. La parola dell’esodo continua ad essere proclamata; addirittura con enfasi si dà spazio a quel memoriale della liberazione che è il giubileo biblico: ma è il “nulla della rivelazione” a risuonare per cuori rivolti altrove.


La verità fugge
dai vincitori

Come Giuseppe Flavio, il famoso storico ebreo, prima compagno di lotta degli zelati contro gli invasori romani e poi alleato di questi ultimi perché, diceva, «Dio sta dalla parte dei vincitori»; anche la chiesa cattolica, forte di un consenso pressoché totale, distoglie lo sguardo dai perdenti e canta nel coro dei vincitori. Eppure – ci ricorda Simone Weil – «la verità fugge dai vincitori»!
La parola di Dio, invece di aprire gli occhi sulla barbarie della nostra civiltà, provocando la giusta indignazione e la lotta per il cambiamento, viene usata come conferma o come supporto pubblicitario a favore dell’otto per mille! Da questa forma della fede occorre congedarsi senza esitazione.
Narra la Bibbia che il giovane Davide, mentre si preparava all’impari duello con un avversario da tutti ritenuto invincibile, «si scelse cinque ciottoli lisci dal torrente e li pose nel suo sacco da pastore che gli serviva da bisaccia» (1 Sam. 17). L’immagine vuol significare l’accuratezza con la quale ci si deve attrezzare per vivere e lottare in tempi esigenti.


Ognuno cerca una direzione

Siamo in tempi di resistenza. Ognuno cerca una direzione perché non c’è più la direzione. Ogni vita quotidiana cerca di vivere alla luce di qualche mito, di qualche racconto, come quello del “manuale per pulirsi gli zoccoli”. Ogni sera una donna in un campo di concentramento si imponeva di pulirsi gli zoccoli non perché servisse, in quel fango universale, ma come esercizio di disciplina personale, per non lasciarsi andare. Il lasciarsi andare era la vittoria del nemico; per questo bisognava resistere.

Roma:
l’agosto giubilare

Chi o che cosa trionfa a Roma in questo caldo agosto giubilare, quando un milione di giovani corre all’appuntamento del vecchio papa Wojtyla?
Sciolte le diffidenze, dimenticate le critiche, la grande stampa riconosce nel pontefice «l’unica autorità morale ancora capace di parlare all’uomo di oggi». E in quei giovani vede uno spiraglio per il futuro, l’attenzione ed il gusto per quei valori il cui tramonto getta ombre sinistre sul nuovo millennio. Non ci riesce per nulla difficile pensare che qualcosa di bello e profondo accomuni questo papa e questi giovani. La passione per Cristo, la voglia di vivere e far vivere, l’anelito per il regno, le preoccupazioni per un mondo senz’anima, il desiderio di giustizia e di pace. Ma al di là di apparenze e facili entusiasmi, forse anche qualcosa di doloroso, di tragico, rende speculare il volto del pontefice a quello di questa strana gioventù. A Roma trionfa l’immagine del papa, il suo innegabile carisma, ma non per questo rinasce nel Vecchio Continente la fede e viene sconfitto questo secolarismo trionfante.
Lo abbiamo notato, più di una volta, il destino del papa slavo: osannato e non ascoltato, punto di riferimento nelle parole, grande dimenticato nelle scelte che contano.
E a Roma vincente e sconfitto allo stesso tempo. Ad est e nella sua Polonia, dopo il 1989, l’alternativa al comunismo non è stata per nulla la risurrezione della vita cristiana ma la corsa al consumismo; nel mondo non è venuto il regno di Dio, ma una progettazione dove tenerezza ed amore cristiano vengono cancellati dai feroci, rampanti, inarrestabili potenti di turno. Che fede sarà possibile nel 2000 se l’amore e la speranza scompaiono?


Lo scacco del papa

A questo “scacco” del papa, se così ci è lecito esprimerci, non sono estranei quei giovani pellegrini di Roma che hanno proclamato una infinita voglia di solidarietà umana e di amore cristiano. Qui si annidano le nostre perplessità.
Da una parte essi vivono la fede del papa come nostalgia ed anelito, con quel candore smarrito che un giorno faceva dire a Pietro: «Signore, da chi andremo se tu solo hai parole di vita?», dall’altra essi stessi sono (o almeno rappresentano) i confusi, i consumisti, i rassegnati ad una società inumana, gli smarriti nei labirinti affettivi e sessuali, gli sconfitti da una cultura postmoderna che abroga compassione e giustizia, dignità dell’uomo e speranza, con la stessa tranquillità con cui si mozzano le teste dei re durante la rivoluzione francese.
No, il pellegrinaggio a Roma non è stato il trionfo della fede, ma la proclamazione del suo bisogno. Non ha portato Cristo in Europa, non ha preparato le strade per il suo prossimo ritorno, ma lo ha invocato come Colui la cui assenza è sconforto ed angoscia.
Non ha creato una meta-noia nei giovani, una pacifica voglia di battere strade nuove, ma più umilmente ha gettato un seme perché i desideri fioriscano in progetti. Non ha acceso “una grande luce” ma ha aperto occhi perché finalmente gli uomini “vedano”, ed ha aperto cuori perché finalmente, oltre ogni chiacchiera, questi giovani imparino umilmente ad amare l’uomo di oggi con le sue grandezze ed i suoi immensi pericoli.

Pove del Grappa, agosto 2000