La “condanna” della scelta. Complessità e unitàà dell’essere umano
Chi è l’essere umano?
Domanda antica e perenne, posta in modo circa esplicito e consapevole che accompagna la vita umana, perché quest’ultima non è mai accettata come si dà, ma trasformata, usata, abbellita, distrutta, attraverso l’atteggiamento attivo che ci caratterizza. Trasformazione della realtà circostante, fin da quell’essere umano che consideriamo, a torto, “primitivo”; non accettazione di ciò che dato, come accade nel mondo animale. L’animale sfrutta quello che trova a disposizione, al contrario l’essere umano è tale, appunto, perché interviene e altera, introduce nuovi elementi, elaborati attraverso un processo che lo impegna intellettualmente e in sostanza.
Se tale è la condizione umana, se nel corso degli avvenimenti, che chiamiamo “storia”, sono date azioni che operano eventi nuovi e trasformazioni nell’ambiente circostante, siamo sollecitati a domandarci chi siamo, e non solo per una curiosità intellettuale, ma per poter stabile se è possibile e necessario scegliere fra molte opportunità che ci sono offerte, non tutte realizzabili contemporaneamente e non tutte conducenti a risultati positivi.
Nella società che definiamo occidentale, si è manifestata in modo forte la duplice esigenza di fare e comprendere il significato del fare; l’attività pratica e l’attività teoretica nella loro circolarità si mostrate sempre più potentemente, di volta in volta privilegiate l’una contro l’altra, ma, in realtà, sempre presenti.
La cultura greca è stata, in effetti, la culla in cui sono state “allevate” le attività teoriche e pratiche dell’occidente, nel senso che si è colta la possibilità del loro sviluppo, il quale, nella loro diffusione nel corso dei secoli, è apparso senza limiti. Se si ripercorre la storia della diffusione della cultura greca attraverso il mondo romano, che ha saputo privilegiare il momento pratico e ha avuto grande rispetto per il momento teorico, il coinvolgimento non solo dei paesi che si affacciano sul mediterraneo, ma di tutto quel territorio che chiamiamo Europa, l’espansione in continenti diversi, l’impronta data ad essi in particolare alle Americhe e all’Australia, si nota come la capacità critica e costruttiva dell’Occidente si sia affermata in modo straordinario.
La visione filosofica occidentale
e la prospettiva interculturale
Perché parlare dell’Occidente per capire che cosa è l’essere umano, che non vive solo nei territori che sono stati indicati, ma anche in altri continenti? Non sanno gli abitatori di quei luoghi riflettere su se stessi? Certamente tutti gli esseri umani hanno le stesse potenzialità, ma non tutte sono attivate nello stesso modo, ed è questo che consente anche di capire le differenze culturali.
La cultura orientale, nelle varie forme religioso-filosofiche, ha molto detto sulla costituzione e sul destino dell’essere umano ed è bene ascoltare tali voci. L’ascolto può avere il valore di illuminare aspetti che non sono stati ancora messi in risalto o confermare scoperte già realizzate. Il soffermarsi sulla caratteristica peculiare della cultura occidentale, non ha il significato di stabilirne la superiorità, ma solo quello di costatare che, attraverso quell’indagine che chiamiamo filosofica, essa ha mostrato di aver attivato la criticità in modo straordinario, con effetti positivi e negativi. La criticità consiste in quell’attitudine intellettuale che stabilisce una distanza con l’oggetto sottoposto ad analisi, serve, quindi, per comprendere le cose, per metterne in risalto le caratteristiche, per indagarne le cause e per stabilirne gli effetti e dovrebbe essere accompagnata anche da un atteggiamento costruttivo, nel senso di disvelativo del reale.
Se tutto ciò non avviene si ripiega su se stessa, in un atteggiamento d’autocompiacimento che diventa sterile. E questo è il rischio che la cultura occidentale ha già corso – si pensi alla sofistica nell’antica Grecia – e che sta correndo ai nostri giorni. Criticità e costruttività si rincorrono nella storia occidentale, con alterne vicende, anche il prevalere della costruttività può essere negativo, perché sfocia nel dogmatismo.
Se si applica tutto ciò alla visione che l’essere umano ha di se stesso, si nota che dal punto di vista filosofico, che dovrebbe essere per noi occidentali quello più “obiettivo”, molte sono state le interpretazioni. Alcune volte più vicine alla lettura che è stata proposta sotto il profilo della tradizione ebraico-cristiana, altre volte più lontana, influenzate dal predominio culturale che la ricerca scientifica ha guadagnato dall’età moderna fino ai nostri giorni. Si possono individuare fondamentalmente tre momenti, tre aspetti: uno che riconosce nell’essere umano una complessità da indagare – ed è questo che intendo sviluppare -, uno che ha spinto la criticità fino ad affermare che è impossibile rispondere a qualsiasi domanda che voglia ricercare una struttura essenziale, infine un terzo, che si affida elusivamente ad una lettura cosiddetta scientifica e che spesso conduce all’assolutizzazione del biologismo.
La complessità dell’essere umano:
dualismo o stratificazione?
L’interpretazione tradizionale, comune sia alla dimensione filosofica sia a quella religiosa, e presente anche in altre culture è stata fondamentalmente basata sul dualismo anima-corpo. Tale interpretazione nasce dalla consapevolezza che qualche cosa caratterizza la vita umana, la quale si mostra come vita non solo in senso biologico, ma come attività di ricerca e trasformazione, com’è stato indicato sopra, e il confronto con il mondo animale e con il cadavere umano, mostra che qualcosa di “diverso” anima, appunto, il corpo che definiamo umano. Tutto ciò corrisponde alla nostra esperienza e non è sbagliato, ma può essere ulteriormente vagliato. E per farlo, ritengo che sia opportuno procedere preliminarmente a due operazioni: in primo luogo, non tener conto di tale interpretazione, metterla fra parentesi, per ricominciare da capo e, in secondo luogo, esaminare l’essere umano dall’interno.
Dall’interno, vuol dire, movendo dalle operazioni che compiamo, dalle esperienze che ci consentono di metterci in contatto con il mondo esterno e con la nostra interiorità. Tale analisi può essere qui solo indicata, e i risultati ci consentono di dire che se percepiamo abbiamo un corpo, se sentiamo impulsi, istinti, tensioni, abbiamo una dimensione psichica, se prendiamo decisioni, lavoriamo intellettualmente, elaboriamo, teorizziamo, costruiamo progetti, abbiamo un’attività che possiamo definire spirituale. Ed è quest’ultima che ci caratterizza come esseri umani.
Il dualismo, allora, non risulta falso, ma insufficiente; la stratificazione di sfere e di piani rende più precisamente ragione di ciò da cui siamo costituiti, pur riconoscendo la nostra unità.
Abbiamo parlato di progetti, abbiamo parlato della capacità di programmare la nostra esistenza, nonostante i forti vincoli che provengono dal contesto nel quale viviamo. Senza idealizzare le nostre capacità, dobbiamo riconoscere che un margine di “libertà” ci è dato e questo può servirci per decidere e costruire, decidere anche se vogliamo chiuderci o ad aprirci agli altri e aprirci all’Altro, a Qualcosa che sentiamo presente in noi stessi e che, venendoci incontro, ci può sostenere: la dimensione spirituale rivela anche la presenza dell’apertura religiosa.
La dimensione etica:
la questione della vita
Se è così, la progettualità è la caratteristica dell’essere umano, ma quali sono i criteri da seguire? La libertà, a questo punto, sembra, come sosteneva Sartre, una condanna, perché siamo costretti a scegliere una via; si apre, allora, il problema etico, la questione della scelta. Certamente ognuno vorrebbe realizzare se stesso in modo positivo. Ma che cosa vuol dire positività?
La difficoltà di cogliere ciò che costruisce può condurci, come si accennava sopra, ad una situazione di paralisi, perché concludiamo che non lo sappiamo, non lo possiamo sapere e diciamo che non possiamo risolvere il problema del senso dell’esistenza umana; tale atteggiamento è quello che, ai nostri giorni, si fonda sul presupposto della debolezza del pensiero ed ha come risultato pratico l’impossibilità di stabilire che cosa si deve fare. Poiché, però, è necessario “agire”, ecco che i criteri che danno sicurezza spesso sono tratti da un’interpretazione puramente scientifica, quale fornita dalle scienze fisico-biologiche, dalle scienze umane, presso le quali si cerca il supporto e conforto. Si tratta di una mentalità positivista ancora molto diffusa, che costituisce l’altra faccia della debolezza del pensiero.
Anche le scienze sono, però, il frutto della ricerca umana, stanno nelle mani dell’essere umano; se sono in una certa misura disvelative del reale, possono dare solo informazioni, non prescrizioni. Dove cercare le prescrizioni allora?
Ecco la necessità dello scavo personale nella propria dimensione psichica e spirituale per trovare i criteri di orientamento in rapporto agli altri; la dimensione etica, infatti, è sempre una dimensione intersoggettiva.
Esiste un criterio fondamentale che ci può guidare? Certamente la promozione e il rispetto della vita, della nostra vita e qualsiasi vita. Questo riconoscimento diventa per noi un valore, al di là delle sottigliezze, al dilà degli egoismi. Vita in senso biologico che, però, assume veramente il significato di vita solo se sottoposta al vaglio dello spirito; non vita a tutti i costi, i “costi” debbono essere sottoposti ad un controllo critico, ad un discernimento dello spirito, che può avere il suo sostegno se aperto agli altri, ma anche se illuminato dall’apertura all’Altro.
Angela Ales Bello
professore ordinario di storia della filosofia contemporanea
Pontificia Università Lateranense – Roma
già decano presso la facoltà di filosofia