L’interrogazione filosofica e lo spazio della democrazia
Quali sono le domande che si pone oggi la filosofia? E quali le domande che le si pongono? A dir la verità, sono proprio queste domande quelle da cui – oggi e non solo oggi – prende le mosse la riflessione, o per meglio dire l’interrogazione filosofica. Infatti l’atteggiamento filosofico decisivo e fondamentale è l’interrogazione, cioè la messa in discussione di tutto ciò che si presenta come verità scontata, credenza indiscutibile, certezza definita. Il noto, proprio perché noto, diceva Hegel, non è conosciuto. Quindi quel che immediatamente appare evidente, deve essere indagato con spirito critico. Fra la certezza e il sapere c’è una bella differenza, e il pungolo dell’interrogazione filosofica s’insinua proprio laddove le certezze solidificate vacillano.
La messa in discussione del dato e dell’istituito
Tutto questo è abbastanza assodato, e può in definitiva venire accettato facilmente. Le cose, però, si fanno più complicate, e anche più ardue da digerire, quando s’incomincia a riflettere sull’esito o sul punto di arrivo della messa in discussione delle evidenze immediate. Si converrà magari che l’interrogazione filosofica deve mettere in discussione radicalmente tutto ciò che spontaneamente sembra presentarsi come dato scontato, perché ritenuto naturale, o perché conseguenza d’una tradizione venerabile e perciò insindacabile, o addirittura perché espressione di intangibili equilibri naturali. Voglio dire che si potrà anche accettare che l’atteggiamento filosofico consista nel mettere in crisi gli assetti fondamentali del dato e dell’istituito, e che in questa operazione consista la portata critica dell’interrogazione filosofica. Poi, però, la filosofia, dopo aver messo in crisi le certezze consolidate e dopo aver elaborato i suoi interrogativi, dovrebbe consentirci di accedere alla verità, dando a quegli interrogativi delle risposte definitive, e quindi ponendo fine all’ansia, all’inquietudine e alle incertezze che sempre caratterizzano l’atteggiamento di chi è alla ricerca di qualcosa e perciò si pone domande.
L’esperienza democratica
della domanda aperta
A mio avviso, tuttavia, l’interrogazione filosofica non è inteso nella sua radicalità se la si considera solo provvisoria: non si tratterebbe di vere domande né di veri interrogativi se si presumesse che da qualche parte la filosofia possa saturarli, cioè fornire loro delle risposte o delle soluzioni. Insomma, l’atteggiamento filosofico consiste nel porre domande destinate a restare aperte; perciò non può configurarsi come un atteggiamento provvisorio o una pratica occasionale della mente. In altri termini la filosofia è domanda, interrogazione, ricerca: e non risposta, possesso, riuscita. Il filosofo, se resta filosofo, non supera l’orizzonte interrogativo della ricerca. Non può mai dire, come disse una volta Picasso, je ne cherche pas: je trouve. Se l’arte, anche quella più sperimentale, non è una recherche ma una réussite, la filosofia che abbandonasse lo spazio dell’interrogazione per pascersi delle (presunte) certezze del suo sapere non sarebbe più filosofia. Quest’ultima, infatti, nasce come interrogazione illimitata e permanente del dato e dell’istituito, ed è indissociabile da una forma di vita in cui l’identità del gruppo sociale e le sue regole fondamentali sono l’esito provvisorio e sempre revocabile della discussione pubblica sui fondamenti delle deliberazioni collettive. Questa forma di vita che riconosce l’indeterminazione ultima del reale, e quindi la responsabilità della creazione sociale dei suoi significati fondamentali, è storicamente legata all’esperienza democratica della polis greca.
L’opposizione filosofico-teologica
alla democrazia da parte di Platone
Tuttavia, se è vero che l’atteggiamento filosofico come interrogazione radicale che non potrebbe essere conclusa da una risposta che la saturi una volta per tutte, è intrinsecamente legato all’esperienza democratica della polis, è altrettanto vero che il primo grande filosofo sistematico fu Platone, cioè un fiero avversario della democrazia. Deriva da qui, fin dalle origini della filosofia organizzata come conoscenza sistematica della realtà, la sua ambizione di presentarsi non più solo come interrogazione e ricerca, ma come possesso della verità e quindi realizzazione compiuta e definitiva del desiderio. Non a caso Platone voleva affidare ai filosofi, cioè ai professionisti della conoscenza dell’essere, il compito di governare la polis, per avere la garanzia che le leggi avessero come fondamento la verità divina e la giustizia eterna. Solo così, secondo Platone, sarebbe stato possibile evitare i pericoli e le minacce del regime democratico, in cui le leggi vengono istituite a conclusione d’un dibattito pubblico, il quale però, non essendo fondato sulla verità oggettiva e assoluta, non dà nessuna garanzia circa la loro giustizia. Nella sua polemica filosofico-teologica contro la democrazia, Platone considera fondamentale l’opposizione tra verità divina, unica e immodificabile (appannaggio del filosofo che contempla l’eternità dell’essere), e le opinioni molteplici e mutevoli (che ogni cittadino è capace di formarsi). Opponendosi radicalmente all’insegnamento e alla pratica di Socrate, Platone sostiene che solo il filosofo ha dimestichezza con la verità eterna e assoluta; poiché poi solo quest’ultima può costituire l’unica unità di misura o l’unico criterio valido per dare validità e ordine alle faccende umane, ne consegue che solo il filosofo è in grado di legiferare. La possibilità stessa della democrazia risulta vanificata da questa pretesa esorbitante ed eccessiva che affida allo sguardo speculativo di un unico professionista della Verità assoluta – e dei pochi suoi discepoli – la responsabilità di governare le faccende umane. La polemica di Platone contro la democrazia pretende così di subordinare l’interrogazione e la ricerca a una concezione parziale e unilaterale della filosofia e della sua pratica, avente la pretesa di accedere in maniera immediata e diretta alla verità oggettiva ed eterna del reale. Da questo privilegio esclusivo, che farebbe della filosofia una sorta di scienza sacra (cioè di conoscenza dell’ordine divino e immutabile dell’universo), il filosofo-teologo sarebbe in grado di fornire a tutti i possibili interrogativi umani le risposte esauriente e definitive, perché basate sui principi fondamentali della realtà. Quella appena delineata non è l’unica concezione e l’unica pratica possibile della filosofia (anche se nella storia dell’Occidente ha avuto insigni e numerosi seguaci, fino a Hegel e Heidegger). A essa s’oppone fin dalla Grecia classica la pratica della filosofia come interrogazione radicale e permanente, ossia come messa in discussione inesauribile del dato e dell’istituito, per definizione sprovvista d’un modello di risposta, di soluzione o di riuscita originale, eterno e immutabile. L’esperienza del dibattito pubblico nell’agora della polis acquista così un valore simbolico da generalizzare: diventa il modello della vera ricerca o della vera interrogazione, destinate a restare indefinitamente aperte, perché prive di un punto di arrivo predeterminato. L’ordine della polis è, dunque, la posta in gioco della deliberazione collettiva, retta da interrogazioni radicali perché inesauribili, ma non l’applicazione alla ‘città terrena’ dell’ordine eterno e immodificabile dell’universo. Di questa ricerca, sprovvista d’ogni illusoria garanzia di riuscita, solo noi esseri umani, finiti e fallibili, siamo responsabili. Da questa responsabilità, terribile ma esaltante, nulla e nessuno può ‘salvarci’. Nel suo esercizio consiste infatti il senso stesso della nostra umanità.