Il dono di sé nel rispetto dell’altro

di Farinelli Gaetano

Ricordi a margine di un epistolario (a Enzo Demarchi)

Una strada stretta e spoglia

La notizia della sua malattia m’era pervenuta a distanza di tempo, come quella della sua morte: c’era in lui una discrezione che limitava al massimo il carico sugli altri. Ci siamo visti nella sua casa due o tre volte durante la sua malattia e ci siamo scambiati alcune lettere in quest’ultimo anno. L’ultima risale al luglio di quest’anno ed è composta in due tempi, prima e dopo l’ultima mia visita nella sua casa.di Voghenza; la seconda parte è scritta a mano, con una grafia ancora nitida e ferma per rispondere ad una mia lettera e per darmi notizie del suo stato di salute: «Tutto mi sembra come prima… ma c’è un cambiamento di significato, che mi introduce in una strada stretta e spoglia (dovrei usare il termine deserto)». La serenità con la quale parlava della morte e della sua malattia non era incoscienza; egli si percepiva uomo ammalato, introdotto in una nuova dimensione, che non rifiutava, e voleva andarci dentro, non per recuperare la salute, ma per vivere intensamente l’esperienza di quella condizione.
Il lavoro che l’aveva mantenuto a contatto con la storia prendeva adesso nuovi significati: «…il lavoro, la forma della mia vita, va spontaneamente rarefacendosi e disperdendosi… è come se quando tento di leggere (riflettere e meditare) e di scrivere, si aprissero dei vuoti».

Come esploratore sulla frontiera

Il lavoro era la modalità della sua vita, non era l’essenza. La parola “forma” credo avesse questo significato: la professione era un modo di vivere, puntando egli sempre all’essenziale, il vivere che non ha regole perché è assoluto. Il lavoro lo legava alla vita e gli amici erano il sale della vita, il suo sapore, ma veniva il momento del confine, dello sconfinamento, in cui avrebbe ancora avuto il bisogno di avere degli amici accanto, ma sapeva di dover partire e allora l’ansia e la curiosità di puntare gli occhi oltre non sarebbe stato un passo naturale, ma forse possibile: «Non sono in cammino verso la morte, ma verso un’oscura novità di vita (…per dire la morte a partire non dal desiderio vecchio di chi rimane, ma dal desiderio nuovo di chi, come esploratore… sulla frontiera, scruta l’oltre, sempre in continuità con il cammino degli altri)».
Questo il pensiero negli ultimi mesi di vita, il suo sentire dominante, sentirsi sulla linea di confine, sulla frontiera, non su di un muro, ma in uno spazio di continuità tra la vita e la morte. Per questo la lettera concludeva con queste parole: «Ti ho detto tutto, e niente… forse il più vero della comunicazione umana si intuisce… nel silenzio… até logo (arrivederci)».

Nel cimitero di Voghenza

Invece l’ho ritrovato domenica 3 novembre, ad un mese dalla sua morte, nel cimitero di Voghenza nella tomba di famiglia della moglie Gabriella. Stefano ha voluto lasciare sulla pietra tombale l’ultimo numero di Madrugada, che si apre in copertina con la foto della curva nord nel campo di calcio del Vicenza, tra vessilli, grida e fumo, lui uomo mite, cui però piaceva la compagnia degli amici. Per questo mi soffermo ancora oggi a rileggere le sue pagine e ne risento la sua voce e la dolcezza.


L’incontro con l’altro

Nel giugno del 2000 scriveva su Madrugada un articolo di memoria e riflessione personale: il nonno che lo prendeva per mano e lo accompagnava nei campi, il silenzio e i piccoli gesti attraverso cui lo introduceva a contatto con le cose, con la natura. Il mistero di una parola latina sul frontone del cimitero aperto dal nonno lo introduceva insieme in una lingua antica e nel mistero della morte. Più tardi un insegnante di filosofia lo avrebbe introdotto alla passione per le lingue, che sarebbero state poi il suo terreno di lavoro, di curiosità e di scoperta. Uno strumento per l’incontro, senza mai perdere la propria identità. Scriveva: «Incontrare una persona è ritrovarsi di fronte ed insieme ad un altro. Ritrovarsi in due, senza perdersi». E ancora: «L’incontro è quasi sempre caratterizzato da rivelazione», quella rivelazione avuta da bambino ora riemergeva più cosciente da adulto anche nei momenti estremi, «ricordo quali indelebili momenti… in cui ho potuto tenere nella mia la mano di una persona cara prima di morire».
Anche per questo il rapporto con l’altro non era rivelazione razionale, ma era sentire, che lo portava dunque a condividere anche il momento ultimo, nel quale ciascuno è solo. Per questo scriveva nella lettera citata: «Verranno i momenti bui… spero nella presenza di chi, una volta “incontrato”, ti accompagna sempre»; ed era quel “chi” l’altro della relazione, insieme Dio e l’altro da noi, il sempre diverso nel quale ci ritroviamo e ci scopriamo pur nella nostra identità.
In questo percorso di pensieri ed affetti c’era in Enzo un punto fermo: «L’interiorità permette il dono di sé nel rispetto dell’altro» e ancora «…solo se siamo sufficientemente integrati al nostro interno possiamo donarci ad altra persona e amarla per se stessa». L’interiorità, il silenzio erano il viatico della sua esistenza attenta e discreta.

Uomo di confine tra la vita e la morte

Il suo mestiere di traduttore lo introduceva in un mondo culturale vivo, ma insieme lo esponeva ad una cultura composita.
La conoscenza profonda della filosofia e della teologia lo accompagnava nella lettura degli eventi in modo complesso, ma anche con il rischio di procedere su livelli separati. Egli però aveva raggiunto una visione articolata ed omogenea delle cose e credo che i motivi fossero diversi: il contatto con il Brasile lo aveva aiutato a non separare la ragione dal sentimento, la conoscenza della Bibbia a non separare l’anima dal corpo in un dualismo ontologico, la scoperta della relazione lo aveva portato ad una conoscenza che era tensione, comprensione e compassione. Il tutto amalgamato da un processo di interiorità costante.
Anche per questo oggi Enzo, nonostante la morte, non si perde nella memoria, magari oggetto della nostra nostalgia, ma resta un punto fermo di confronto e di tolleranza, o come scriveva, uomo di confine tra la vita e morte, linea di continuità tra la vita e la morte nella relazione con l’altro.