Giustizia prevaricante e rimorso d’ombra

di Stoppiglia Giuseppe

Reperti di una ricerca metodologica

«Non voglio che la mia casa
venga cinta da mura
e tappata nelle finestre.
Voglio che le culture
di tutte le terre
si sporgano liberamente
nella mia casa,
ma rifiuto di essere sopraffatto
da una sola di esse».
[Gandhi]

Stazione di Mestre
Ho veduto la donna rannicchiata fra il muro e gli scalini del portone della stazione di Mestre, con la testa incastrata fra le ginocchia ed il fagotto di stracci sotto i piedi. Pare sia invecchiata di anni, non di mesi. Quando la incontrai l’estate scorsa, aveva qua e là sulla persona qualche guizzo di vivacità. Ora non è che un rudere, tanto più triste perché un rudere che cammina.
Arriva alla sera, se ne va al mattino.
Porta con sé il mistero disperato della sua solitudine. Non si è riservata che questo scalino, sul quale, nel freddo della notte, si rimpicciolisce più che può.
Nessuno sa dove ha trascorso questi mesi. Forse essa non è più nessuno, non risulta a nessuna anagrafe di uomini civili e se la sua scheda esiste, è come se esistesse a vuoto, come le schede dei morti.
Non so perché si ostini a dormire tutte le notti qui, anche se piove. Passare, però, a sera inoltrata, dopo aver detto da qualche pulpito le buone parole della giustizia e della carità, è una faccenda che mi va di traverso.
Tanto più, debbo confessarlo, non ho il coraggio di dirle qualcosa. D’altronde essa non domanda mai nulla, né un pezzo di pane, né soldi.

Per liberarmi di un fantasma
Una sera, dopo aver girato un po’ attorno a quel gomitolo di ossa, gli ho lasciato cadere dei soldi sulle ginocchia. Non si è mossa. Non so se dormisse, ma non si è mossa.
La mattina i soldi erano ancora sullo scalino della porta. Forse ha pensato di aver sempre chiesto troppo; addirittura che ha rubato. Ora cerca silenziosamente di restituire, di chiedere sempre meno, fino al giorno in cui non chiederà nulla, neppure quel mezzo scalino per la notte.
Almeno parlasse, gridasse, ci desse modo di poterla accusare, dirle che è molesta, incontentabile, ladra. Poterla cacciare, denunziare alla polizia, raccoglierla in una delle solite retate notturne; in prigione, se non altro, le darebbero da dormire e da mangiare; forse le farebbero fare anche un bagno. Invece, nulla. Essa tiene a questa sua miserabile libertà quanto alla vita: forse sono una cosa sola.

Quel rimorso d’ombra
Non so, ma qualcosa non va; dentro di me e nel cuore di questo mondo senza amore, qualcosa si sta fermando, qualcosa è morto: altrimenti questa donna dovrebbe avere non gli asili pidocchiosi, i dormitori luridi, ma una casa che la ospita anche se è stata ladra; una casa aperta all’amore. Cose buone, forse vere. Le penso col cuore, mi fanno soffrire.
Ma nel cuore c’è posto anche per qualcosa d’altro; per la speranza insorgente e fastidiosa che questa donna scompaia, come ha fatto per molti mesi; che non mi rimproveri più col suo silenzio.
Sul muro dove si appoggia nel suo disgraziato sonno, le intemperie hanno chiazzato l’intonaco di una macchia scura. A distanza, anche se la donna non ci fosse, quella macchia mi darebbe sempre l’impressione della sua presenza. Lo so. Anche quando la donna morirà in silenzio o scomparirà per sempre, non si sa dove, ogni volta che mi avvicinerò a quel portone mi accoglierà con quel rimorso d’ombra, avvelenandomi l’anima.

Chi è l’uomo che grida
Non so perché Dio non soccorra l’uomo che grida il suo dolore, credo tuttavia che quel grido sia quello stesso di Dio. La mente corre subito a quel gioiello che è il libro di Paolo de Benedetti intitolato “Quale Dio”, nel quale un concetto per definizione intoccabile — l’onnipotenza divina — viene rivoltato come un guanto. L’idea catechistica di Dio che può tutto e che se omette d’intervenire nelle faccende del mondo è perché ha a cuore la libertà degli uomini, dopo l’immane tragedia di Auschwitz va completamente rivista.
De Benedetti, pur sottolineando con antica sapienza ebraica i limiti del suo discorso, ci parla invece di un Dio fragile, alla ricerca di se stesso e «che ha fatto una montagna ­ il mondo — così alta da non poterla scalare».
Tutto questo significa, per noi, aprire o anche solo riproporre orizzonti nuovi sul senso della sofferenza e sul nostro modo di pensare il divino.
Il Dio della fede è innominabile, mentre il “dio della metafisica” è un grande imbroglio storico: non è comprensibile ai poveri. Dio è l’orizzonte al di là di ogni progetto, non ha parte; il “dio­guerra” è orribile e antiumano, un dio feticcio, vile, opera dell’uomo.
«Voi impedite agli altri di entrare nel Regno e voi stessi non entrerete» ­ dice Gesù. A chi ha buttato sulle spalle dei poveri, degli ultimi, l’imbroglio della legge, Dio toglie le chiavi del Regno.

La profanazione della morte
Dopo il disgusto provocato dalla messa antimusulmana di Lodi, la Lega Nord ha messo in scena a Trento una profanazione ancora più ripugnante: una fiaccolata al cimitero comunale per impedire la destinazione di un ritaglio di terra alle tombe dei musulmani.
A Lodi ha piegato il sacramento dell’unità, celebrato nella messa, per l’obiettivo della lotta fra figli dello stesso Dio e del medesimo patriarca Abramo, a Trento ha mortificato perfino la morte, che nel suo intervento non conosce alcuna disuguaglianza, per rifiutare un po’ di terra e di misericordia cristiana anche ai morti di altra religione.
La Lega si considera evidentemente maggiore di Dio, si sostituisce al suo giudizio finale e decreta ciò che si deve riservare ai morti di una fede e a quelli di un’altra.
È un sentimento ingenuo quello che mira a consolidare più a fondo la relazione popolo — terra — tradizione in un unico, esclusivo mondo culturale, dove gli altri non esistono se non come minacciosa presenza, o come intrusi.
Ingenuo e anche pericoloso, perché poi ogni forma di fascismo s’abbevera a questa primordiale unità tra “popolo, terra e tradizione” in nome di un qualche mito unificante e comune.

Disorientamento metodologico
Qualcosa di torbido e di oscuro si mescola oramai nella cultura che vedo svilupparsi attorno a me. Le mode si inseguono, i giovani preda di mille parole d’ordine legate alla diffusione dei processi tecnologici perdono in serietà metodologica per essere invece preda di un’esigenza tutta esteriore, legata all’effimero e al momentaneo.
Molto di quanto viene fatto, ad esempio, in nome del divertimento è un insulto all’anima. Ad essere chiamata in causa non è l’offesa a valori morali, molte cose possono essere neutrali, ma la disumanizzazione. Molti aspetti di queste profferte di divertimento si traducono in un processo continuo di impoverimento intellettuale.
Le ideologie nascono non più come costruzioni culturali tese ad interpretare le trasformazioni in atto, ma, all’inverso, tutte orientate a sostituirsi a quelle che entrano in crisi.
I saperi stanno perdendo i loro statuti specifici e la loro dignità: il giornalismo spicciolo mangia il sapere e ad esso va sostituendosi. I giovani sono attratti da mode sempre più evanescenti, il rigore metodologico va sparendo. La politica come maestra del collettivo, e come sintesi dei processi storici, si va smarrendo. Lascia dietro di sé un vuoto che né le culture legate all’immagine, né quelle gregarie dei processi tecnologici diffusi, possono colmare.

Una cosa di mezzo che soddisfa il fasto
La stessa spiritualità ufficiale che viene oggi predicata, favorita, alimentata dalla chiesa, è per favorire la classe borghese, piuttosto che il popolo o gli intellettuali. Una classe ricca, statica, che in fondo vuole la chiesa al suo servizio e che pure Dio deve essere al suo servizio.
L’intellettuale non aspetta una spiegazione razionale, ma la visione di una fede che abbia un’efficacia storica sulla trasformazione del mondo. Il popolo aspetta la giustizia, la difesa dei suoi diritti, la solidarietà. ma non c’è né l’uno, né l’altro. C’è una cosa di mezzo che soddisfa la festa, il fasto, il bisogno di colori, di immagini, di esultanze, di trionfi. Tutto a misura di una classe borghese che non assume mai la realtà, la povertà della realtà, le sfide e le sofferenze della realtà, per vivere invece nelle novelle della televisione dove entra anche la preghiera, la festa religiosa, ma tutto viene appiattito.
Nella Bibbia il popolo di Dio è pieno di prevaricazioni, di abbandoni, di tradimenti, di esitazioni… il nuovo popolo di Dio presenta le stesse debolezze umane, fragilità, momenti di oscurità, le stesse esitazioni.
Sempre nella Bibbia si parla dell’Alleanza che si rinnova, di un Dio che ritorna di fronte al tradimento del popolo, non sempre all’altezza della missione che gli è stata affidata. Eppure Dio continua con la sua fedeltà.
È lo stesso mistero che ognuno vive nella sua vita privata: ci chiediamo, infatti, come sia possibile che Dio continui ad amare una persona indegna come me.
Il segreto è associare la ricerca della propria identità alla riscoperta di valori vitali della solidarietà, della responsabilità, della creatività, affidandosi alla relazione d’amicizia. Per questo bisogna partire dal rifiuto di modelli prefabbricati, compresi i modelli religiosi.
È urgente scoprire l’amicizia che il consumismo ha profondamente corrotto, riducendola a un cameratismo di fine settimana per godere in comune il tempo di una discoteca; oppure riducendola ad un associazionismo mafioso che capitalizza tutte le furbizie per sfruttare il più intelligentemente possibile quella parte dell’umanità, mantenuta in una ingenua passività; oppure, in versione religiosa, alla beata, pacifica confraternizzazione dove, lasciando fuori della porta il volto ispido del fratello, ci si veste dell’abito bianco e ci si unisce in difesa del mondo ostile e si compra la garanzia che la felicità terrena continuerà dopo la morte.

Inquietudine e ricerca
La vera amicizia non è letargo, ma è comunicazione di inquietudini. Non è ricerca di rifugio, ma è una continua e rinnovata partenza alla ricerca di un’identità, che non germoglia nell’io solitario, ma ci viene dal di fuori, dagli altri. Un uomo giusto non è quello che vive immerso nei trattati giuridici, ma colui che accoglie l’appello di chi è spogliato dei propri diritti. E accogliere quest’appello significa farsi amico. La gloria di una società libera sta non solo nella consapevolezza del mio diritto di essere libero, ma anche nella comprensione del diritto del mio prossimo di essere libero, e della sua capacità di essere libero.
Mi sento più vicino ad un musulmano che crede in questi valori piuttosto che ad un cattolico che vive egoisticamente e pensa alla sua fede come salvezza personale, ma non è interessato agli altri. Il pluralismo non è solo accettazione dell’altro, ma è la messa in atto di quegli elementi di vita e liberazione presenti nelle diverse fedi, ricordando però che «per poter andare verso l’altro, occorre essere consapevoli di un punto di partenza, occorre essere stati, essere, presso di sé» (Martin Buber).
Pove del Grappa, febbraio 2001