Galleggiando in terza classe
Il cerchio della esclusione
Ci imbarchiamo nel primo pomeriggio. Nella calma della calura equatoriale il battello Santarém, diretto a Belém, è meta di un via vai di merci, cibi, persone, borse, frutta: la vita dell’Amazzonia passa abbondante per il fiume.
Nella confusione del ponte basso, giù a livello dell’acqua, nello spazio aperto della terza classe, dove si appendono le amache sopra i propri bagagli, tra la gente che passa, vecchi e bambini già stanno sonnecchiando e i nostri zaini sembrano decisamente ingombranti. Issiamo le amache in alto, vicino al soffitto, sopra altra gente. Non ci si sta quasi. Lo spazio è condiviso: le amache si toccano e si contaminano, si parlano. La nostra vicina sta scappando con i due figlioletti da un marito violento dopo alcune inutili denunce. I due personaggi sotto di noi stanno viaggiando in macchina per il loro grande Paese brasiliano per conoscerlo, perché non si sono mai spostati dalla loro città, nello stato di Minas Gerais. Più in là qualcuno sta viaggiando con due galline. È gente comune.
Appesa alla precarietà
Appollaiata là sopra, nella mia amaca, resto in silenzio. Sopraffatta da un povero mondo che non conosco e non mi appartiene. Allora penso, perché non riesco a fare altro. Penso a questo popolo brasiliano che mi sta accogliendo, svelando la sua vita in storie e abitudini a me lontane. È un Brasile che mi lascia appesa ad un’amaca, alla precarietà e alla mancanza di uno spazio privato proprio, alla naturalezza dei rapporti umani e dei ritmi della vita, alle sue miserie quotidiane e comuni. Tutto ciò mi fa sentire europea come non mai, rigida, imbevuta di scienza e cultura, di schemi e idee, benestante.
Troppi piedi e teste invadono lo spazio personale che vorremmo mantenere, allora saliamo ai piani alti della nave a goderci lo spettacolo del fiume nella foresta. Qui fraternizziamo subito con i turisti europei che dormono su un letto e hanno una camera con bagno privato. Andiamo anche a mangiare con loro nello spazio destinato alla prima e alla seconda classe, evitando la mensa popolare laggiù in basso, vicino al calore e al rumore dei motori. Passeremo la maggior parte del tempo con loro, nella parte alta della nave: alla fine i simili vanno con i simili. La nostra somiglianza sta nel fatto che tutti noi lì possiamo permetterci di viaggiare in altri continenti e prendere l’aereo o anche solo dormire sulla nave in una camera che costa quasi tre stipendi minimi brasiliani. Noi possiamo andare dall’avvocato se viene commessa un’ingiustizia contro di noi, noi confidiamo nella giustizia e pensiamo che la polizia faccia il suo dovere in difesa del cittadino. Noi siamo inclusi nel primo mondo.
Accattonaggio sul fiume
All’improvviso, in mezzo a questi pensieri, in mezzo alla percezione chiara della differenza di prospettive non solo culturali ma che riguardano la possibilità stessa di benessere tra l’europeo e il brasiliano medio, arrivano le canoe. L’equipaggio tira una rete laggiù nella terza classe perché nessuno salga a bordo, nessuno di quelli che con le canoe arrivano fino alla nave per vendere gamberi e frutta fresca alle mani che si sporgono oltre la rete. Altre mani gettano sacchetti pieni di cibo o vestiti ad altre canoe, più lontane. A bordo vi sono bambini, a volte con le loro madri. Emettono gridolini che fanno accapponare la pelle, quasi non sembrano umani, e agitano le braccia nel gesto di richiesta di aiuto, nell’invito a gettare qualcosa. Tra il pubblico brasiliano che assiste a tale miserabile spettacolo qualcuno esulta per aver centrato la canoa con il proprio lancio di viveri, qualcun altro invece commenta amaramente: «anche questo è il mio popolo, il mio Paese.» E rimane in silenzio. È il silenzio dell’abisso che distanzia chi ha qualcosa da chi non ha niente, come prima là nella mia amaca c’era silenzio tra chi ha tanto, tutto, e chi ha solo qualcosa.
Le canoe sono tante, arrivano in continuazione, raccolgono ciò che viene lanciato e spariscono tra le onde della scia della nave. Si perdono nel dondolio dell’acqua, come cento frammenti di storie già viste, qui in Brasile, nelle favelas, nelle periferie, nella foresta, nei campi, storie di miseria e indigenza.
Se il denaro fa la differenza, la democrazia…
Ancora penso a noi, alla mia gente. Noi che abitiamo strade percorribili, che ci arrabbiamo se il treno arriva in ritardo, che abbiamo un contratto di lavoro e ferie pagate, che andiamo in pensione e abbiamo un’assistenza medica. Noi che siamo vaccinati, che prendiamo medicine efficaci se siamo ammalati, che abbiamo un’età registrata, che possiamo passeggiare nelle nostre cittadine senza l’incubo di essere assaltati. Noi che possediamo la terra, che leggiamo libri e andiamo al cinema, che abbiamo insegnanti competenti, che siamo impegnati in politica. Noi che sogniamo un mondo senza frontiere, noi che siamo liberi di realizzare le nostre inclinazioni. Noi che mangiamo tutti i giorni.
Non è una grande novità vedere che gli uomini non sono tutti uguali e che alla fin fine sono coloro che hanno denaro quelli che hanno anche maggiori prospettive. Ma da un punto di vista delle condizioni di partenza all’interno della cittadinanza democratica, che è il modello a cui le società moderne aspirano, ciò non dovrebbe accadere. Lo status di ogni cittadino infatti, uguale a tutti gli altri, all’interno della rete di rapporti giuridici con lo Stato e con gli altri concittadini, dovrebbe essere quella di poter accede ai medesimi diritti, servizi e opportunità riconosciuti e garantiti dallo Stato, nonché di partecipare alla gestione della cosa pubblica. Se le garanzie e i diritti, le protezioni sociali, le forme di cultura e di partecipazione politica non sono accessibili a tutti i cittadini semplicemente in quanto tali, allora appaiono privilegi.
Intorno ai benestanti beneficiari di tali privilegi si allargano le sacche degli esclusi, di coloro che nella realtà non sono cittadini e non conoscono nemmeno le loro prerogative. Molte volte non sanno di avere capacità e tanto meno diritti, non sanno che i politici dovrebbero essere al loro servizio, non sanno di poter avanzare legittimamente le loro richieste. Non sanno che possono parlare in pubblico e pretendere un ascolto. Non sanno che possono indignarsi e organizzarsi per lottare. Per essere inclusi.
Cittadinanza e inserimento sociale
Il tema dell’inclusione sociale e dell’accesso ad una forma di cittadinanza che apra a ciascuno la prospettiva di vedersi soggetto di diritti reali con la coscienza della propria dignità e che, soprattutto, possa innescare un processo di riscatto che porti a migliori condizioni di vita è la finalità di qualsiasi entità qui, pubblica o privata, che lavora per fare del «Brasile, un paese di tutti», come recita lo slogan governativo. Si tratta di un processo educativo lento e difficile, che chiama in causa tutta la società. Costruire una cittadinanza piena significa innanzitutto entrare in dialogo con gli esclusi al di fuori di quegli schemi di assistenzialismo e pietà che non generano altro che un rapporto di dominio del più forte sul più debole, che ne rimane dipendente. Il dialogo può e deve partire dalla volontà degli inclusi e dalla solidarietà tra cittadini che è una delle condizioni che determinano la nascita e la prosperità delle società umane, in cui ciascuno risponde per sé ma anche per quelli che appartengono alla sua stessa comunità.
Essere responsabili anche per gli altri, i diversi e gli esclusi: ecco l’idea che potrebbe spezzare il giogo del sistema dei privilegi e creare una cittadinanza nuova, umana, di tutti. Anche se sembra un’utopia non si può più sottrarsi ad un confronto con essa, per non rischiare di ricadere nei cerchi concentrici dell’esclusione sistematica. Essa soffoca il nostro primo mondo, che ha paura dell’Est e del Sud, degli immigrati sempre più numerosi, di un Europa politica unita e aperta ad oriente.
Da un punto di vista politico una cittadinanza che include è la sfida tanto dell’Amazzonia, quanto del Brasile e del mondo attuale: l’immigrazione dai paesi poveri ai nostri ricchi regni, il processo di integrazione europea che stenta a decollare sono due questioni importanti che toccano direttamente il vecchio continente e il nostro Paese e che possono evolvere tanto nella chiusura nei confronti dello straniero quanto nel dialogo con esso. Non a caso Consiglio d’Europa ha dedicato l’anno 2005 proprio al tema della cittadinanza.
I discorsi teorici ingarbugliano la navigazione che scivola con naturalezza verso il mare invisibile. Le canoe si allontanano nel crepuscolo e le amache si chiudono a bozzolo. Resta l’umanità a ballare sul ponte alto. Noi, tutti insieme senza distinzione, tutti nella stessa barca, tra il fiume e il cielo stellato, riconciliandosi l’un l’altro e abbandonando la propria paura.