Fare memoria. Le voci, i volti per raccontare.
Carte colorate e nastri
È mercoledì, l’ultimo giorno di scuola prima della pasqua. Le scale della scuola sono tempestate di piedi agitati. Da un corridoio sento urla di gioia invocanti uova al cioccolato. Gli insegnanti girano sornioni, come molli cani pastori, un po’ stanchi di non capire da quale parte arriverà il lupo.
Sono invitato in questa V ginnasio da visiting professor, coinvolto da una cara amica, insegnante di italiano, storia e qualcos’altro, quasi una seconda mamma per la classe, invitata a concentrarsi sulla Memoria come valore per le giovani generazioni.
Elena ha organizzato le due ore come un miniconvegno: i ragazzi porteranno ciascuno un proprio intervento programmato e verranno coordinati dal preside; a me il compito di dare qualche provocazione, coadiuvato da un amico comune, anch’egli di formazione umanistica.
Fondente o al latte?
I ragazzi sono dieci: alcuni goffi, nelle felpe colorate, raggiungono alla chetichella la cattedra, territorio estraneo, gli occhi bassi, a ripassare con le ingombranti scarpe da trekking le idee costruite nei giorni precedenti; altri più disinvolti, il viso furbo e qualche glorioso pelo sul mento: si siedono fieri e attaccano a parlare con aria di sfida. Il preside, anziano sacerdote, li osserva dalle lenti spesse e cerca di ricondurre le loro parole ad alcuni punti-chiave, qualche volta mettendoci del proprio (che abbia intravisto arrivare il lupo?).
Inizia Pietro, luminoso: la memoria è la congiunzione tra passato e presente, unione di popoli, di religioni e di persone. Cerca con parole sue di camminare sul filo teso dagli storici accorti tra memoria collettiva, quella del paese in quanto “nostro”, e l’impossibile memoria condivisa, fatta per ognuno delle vicende personali e famigliari, segni profondi e ferite non rimarginate. È la convivenza il tema scelto da Filippo: il tentativo di educare alle regole dell’altro per poterne vivere i costumi e il territorio. Poi c’è Riccardo, preciso e sintetico: lancia una provocazione a partire dai trattati di Versailles, che condannano la Germania all’impoverimento e al rancore. Dai banchi la palla viene colta e la questione si attualizza con la guerra all’Iraq come “rimedio necessario”: echeggiano discussioni passate, in cui la classe di ritrova divisa tra filo- e anti-americani, tra destra e sinistra, cadendo forse nel tranello delle semplificazioni giornalistiche.
Cercare tra i pezzi
Giuseppe è saggio e, a piccoli passi, coinvolge Liliana Segre, reduce del concentramento: la memoria è come un iceberg, e non possiamo fermarci alla piatta superficie dell’abitudine, ma dobbiamo cercare quel che è sedimentato. Laggiù, in profondità, il passato ha la forza di sconvolgere e di far scoprire ad ognuno le proprie responsabilità. Torna Primo Levi: il lager colpisce a distanza. E nel dolore di un ricordo che ancora si muove sta la cifra del pianto degli ex deportati, come bene sottolinea John. (E qui la mia testa vola dalla finestra: chi sa a quale John hanno pensato i genitori di questo ragazzo nel dargli il nome, poco più di quindici anni fa…). È il turno di Riccardo, che si ferma sul silenzio buono della meditazione di ciò che è stato, e quello cattivo di chi attende troppo per rammentare: il ricordo è urgente. Ma che cosa ricordare? Mi torna in mente con forza la prosa calma e insieme incalzante di Imre Kertész, ungherese rinchiuso a Mathausen e Auschwitz: nel suo Essere senza destino recupera ciascun singolo frammento della deportazione raccontandolo con gli occhi puliti di ogni prima volta, dall’angolo destinato ai bisogni corporali nel vagone del treno-merci alle lenzuola immacolate dell’infermeria. Ma è la conclusione a spiazzare e insieme a gettar luce su tutte le pagine che l’hanno preceduta. Su di essa, nei pochi minuti rimastimi, avrei costruito la mia possibile sfida: «persino là, accanto ai camini, nell’intervallo tra i tormenti c’era qualcosa che assomigliava alla felicità. Tutti mi chiedono sempre dei mali, degli “orrori”: sebbene per me, forse, proprio questa sia l’esperienza più memorabile. Sì, è di questo, della felicità dei campi di concentramento che dovrei parlar loro, la prossima volta che me lo chiederanno».
Com’è la sorpresa?
«Sempre che me lo chiedano – chiude lapidario Imre -. E se io, a mia volta, non l’avrò dimenticata».
Che cosa ricordare, allora? Max non ha dubbi: è la sofferenza che s’accompagna al ricordo e con essa sta in agguato il rancore, che mescola le carte e rabbuia le parole. Già si fa spazio una domanda importante, tra i compagni di classe: come faremo, quando non ci sarà più nessun testimone vivente, nessuno a ricordarci la sofferenza patita? E se dimentichiamo, precisa Marco, non ricadremo forse negli stessi errori? Come facciamo a non farci risucchiare dall’indifferenza? Perché a questo non possiamo sfuggire, teorizza Jacopo (e non sa che alle sue spalle gli dà man forte uno storico del calibro di Marc Bloch): il presente si fonda sul passato, è suo figlio, e con gli occhi dell’oggi noi stiamo interrogando quel che è stato. Filippo, geometrico, con puntiglio filologico richiama i due poli della memoria: conservare e richiamare. Si fa serio e, concludendo, prende su di sé un carico che la maggior parte degli adulti scansa con furbizia: chi conosce deve prendere posizione.
Tante sono le parole che ora s’accalcano in testa: i ragazzi si son fermati con Wiesel, Levi, Segre, Lustiger, ma anche con Agostino e qualche pagina della Bibbia. È viva però la sensazione che il passato ha bisogno di volti e mani che lo raccontino, che la storia passa attraverso gli occhi di chi l’ha vissuta. Un testimone vivente: non solo protagonisti che, da vivi, riportino in vita il già stato; ma anche uomini e donne che sappiano parlare alla parte viva di questi ragazzi, che accettano di mettersi in ascolto.
La sorpresa è da costruire!
Le due ore son volate e le nostre poche parole finali cadono un po’ pesanti: sui vetri pigia il naso l’aria di marzo e la scuola si spopola in fretta. Elena è contenta dei suoi ragazzi, ma guarda già oltre: sa che questo lavoro sulla Giornata della Memoria è una goccia, alla quale far seguire altro; nuove cose, che possano intercettare tutti, anche quelli silenziosi. Il gruppo rompe le righe in fretta, raccogliendo diari, astucci e borse. Paradossale, da sotto un banco di una classe di ginnasio del Seminario Vescovile di Padova spunta un libro di analisi politica su Trockij: anche il lupo era di cioccolata e Cappuccetto Rosso se l’è mangiato.