Europa e Mediterraneo tra passato e futuro
Catania, novembre 2004
Piove sulla Sicilia. Il Mediterraneo lambisce gli scogli neri in uno scroscio di onde e di vento. L’Europa all’orizzonte, come un faro, lo illumina ad intermittenza.
Arrivano studiosi e giornalisti, accademici, funzionari, professori, eminenti, studenti, amici, persino preti. Il convegno di Catania si presenta come un luogo del riflettere, che è lo spazio stesso aperto tra passato e futuro, tra sapere e immaginare, tra realtà e progetto. Esso trova tuttavia il proprio senso nel presente, con cui si sforza di entrare in relazione per interrogarlo e capirlo. Il tema è già lì, segnato dalle coordinate geografiche e culturali della città, terra di mare, aperta ad un’appartenenza plurima, ad una comunicazione interdisciplinare.
«Europa e Mediterraneo, tra passato e futuro». Ho il pieghevole con il programma degli interventi in mano, il biglietto dell’aereo, la giacca sottobraccio, la guida della città e il quaderno per gli appunti nello zaino. Non mi sento molto convegnista e infatti i convegnisti veri alloggiano all’hotel Sheraton, sul mare poco fuori Catania, non all’ostello della gioventù come me, giù alle pescherie vecchie, in piena zona del mercato.
I convenuti si susseguono al tavolo delle conferenze e ricamano sul tema dato una trama di voci eterogenee che raccolgono attorno al Mediterraneo storie, immagini suggestive, dati economici, programmi politici, visioni letterarie e schemi filosofici, ognuno secondo il proprio campo di competenza. Nelle loro parole e nella mia immaginazione esso prende forma come occasione di discorso, possibilità privilegiata di relazione, di accettazione dell’altro, spazio di dissonanze, di traduzione, di complessità, di unità nella diversità, arcipelago tra la forma del mare e quella della terra, conca della convivenza e dello scambio, paradigma di apertura, terra di mezzo, di sovrapposizioni e di narrazioni.
Spazio di incontro o piano inclinato?
Il Mediterraneo è, per la sua particolare conformazione, uno spazio privilegiato di incontro poiché raccoglie in un vincolo di vicinanza mondi diversi e opposti, tanto che si può attraversare con un gommone, verso est, quella striscia azzurra che è l’Adriatico per trovare i primi musulmani europei, avamposto dell’oriente, o, verso sud, lo stretto di Gibilterra per essere già in Africa. Questa particolarità può portare ugualmente ad una facilitazione tanto delle possibilità di comunicazione quanto di un pretesto di scontro.
Il Mediterraneo è un luogo di confine, una lunga frontiera che facilita gli scambi, non solo commerciali. Esso lega gli abitanti delle sue sponde in uno stesso bacino di relazioni e di rotte percorribili, creando quasi una nicchia protetta, al di fuori dello spaventoso oceano, in cui nessun luogo è troppo lontano in confronto agli spazi aperti e alle immense distese d’acqua che caratterizzano gli altri continenti. Qui gli uomini hanno viaggiato e si sono incontrati, dando vita alla cultura come comunicazione, come intreccio di relazioni, come luogo di mediazione e di traduzione tra lingue e diversi modi di vedere il mondo. Una traduzione, per chi ha la pazienza della riflessione e dell’ascolto, non è mai terminata, ma è una continua una messa in discussione per entrambi i soggetti in dialogo, in gioco tra il capire e il farsi capire. Ciascuno di essi è chiamato a riconoscere e a comprendere innanzitutto ciò che dice l’altro nel suo sistema di riferimento esterno da sé, per poi trasporlo nelle coordinate di orientamento, sia linguistico che culturale, proprie. La traduzione è lo spazio di sovrapposizione e di apertura tra grandi edifici del sapere, che hanno sedimentato la loro peculiarità nelle lingue. Essa è una modalità di relazione dialogica i cui attori si riconoscono vicendevolmente, essendo collocati su uno stesso piano di legittimità e importanza. Quello che essi si comunicano e si raccontano sono le loro storie particolari, cioè la loro esperienza concreta di abitare quel determinato territorio e di far parte di quella comunità storica.
Il piano della traduzione si inclina quando essa diventa un rapporto di subordinazione che presuppone un soggetto e un oggetto, un elemento dominante e uno dominato, una cultura superiore e una che deve assimilarsi e scomparire. Ciò avviene nel momento in cui una delle parti in causa viene investita dal potere e lo esercita, nelle sue varie forme. In uno spazio quale il Mediterraneo in cui nord e sud, est e ovest si incontrano, ognuno con la forza della propria origine, delle proprie motivazioni e necessità, nonché del proprio punto di vista, è naturale la tentazione per ciascuno di essi di imporsi sugli altri, di vederli in funzione di sé, di comprenderli attraverso i suoi propri codici. Questa tendenza si acuisce quando una delle parti assume la condizione del potere nella forma della forza economica e politica o – considerando la propria ricchezza, il benessere degli individui, le conquiste nel campo della giustizia, dei diritti umani e dello stato sociale, come indicatori di un maggior livello di sviluppo e trovando in esso la chiave della propria legittimazione – nell’autopercezione di sé come cultura superiore. La prevaricazione si giustifica in questo modo come necessità che soddisfi i bisogni di esistenza e di potenziamento del soggetto dominante o che civilizzi gli spazi che non rispondono ai suoi requisiti di sviluppo. Attraverso questo meccanismo si spezza il vincolo della traduzione e la comunicazione diventa trasmissione di informazioni e non più terreno di riconoscimento reciproco e di ascolto. Essa precipita in un cortocircuito di autismo e autoreferenzialità che gli agitatori dello scontro delle civiltà e della lotta in bianco e nero tra il bene e il male possono agevolmente cavalcare. Se inoltre in una situazione di polarizzazione ideologica il legame con la terra viene esaltato come valore fondante ed esclusivo di identificazione della civiltà che vi vive, nonché diventa per la stessa una necessità da possedere e su cui esercitare il potere, allora ogni forma di relazione degenera nella guerra.
Il Mediterraneo tuttavia resta principalmente mare. Il principio dell’acqua è sfuggente, non mette radici, fluttua attraverso i confini, non si fa possedere, scorre da una riva all’altra senza forma o storia. Il dominio sul mare non è come quello sulla terra, stabilizzato sulla difesa di un possesso attraverso le mura e i fossati che lo racchiudono, si fonda su uno spazio aperto e sul controllo delle sue vie di comunicazione, non sul loro annullamento. Il mare apre gli orizzonti, non li chiude, come fa la costa. L’acqua del Mediterraneo inframmezza la terra e ne attutisce la pretesa di esclusività e di chiusura che si risolve nel possesso. Crea un arcipelago all’interno del quale ogni isola è un centro legittimo che vive dei suoi contatti marini, immerso nelle relazioni con gli altri senza i quali morirebbe, appunto, d’isolamento.
Tentazioni egemoniche e nuove sfide
Il Mediterraneo non può allevare culture chiuse, questo è il suo grande insegnamento. Esso rappresenta il luogo in cui l’Europa può trovare sia il suo più prossimo interlocutore esterno, rappresentato da un oriente e un meridione con cui entrare in rapporto, sia un modello alternativo per un tale rapporto, che non sia cioè un rapporto di soggezione. Tradizionalmente incline a dividere il suo spazio in Stati nazionali, costruiti sull’omogeneità e sull’armonia al loro interno rispetto ad un centro di potere unico sorretto da un catalogo di valori condivisi, l’Europa ha allargato le sue frontiere fino al limite segnato da queste condizioni, tendendo ad allontanare nello spazio, ma non a sopprimere, l’esclusione o la sottomissione del diverso e dell’incompatibile da sé. I problemi legati alla posizione di subordinazione degli immigrati, lavoratori ma non cittadini, negli stati ricchi occidentali sono un esempio di tale inclinazione.
Il Mediterraneo propone invece la possibilità di un policentrismo in cui non ci siano forme di egemonia e in cui tutti abbiano possibilità di parola, in modo che si possano sentire le voci più deboli, dalle quali verrà una risposta alle sfide del nostro tempo, risposta che noi stiamo invano cercando, dall’alto della nostra compiaciuta autosufficienza.
Finisce il convegno ma non la riflessione. Passeggio per Catania, ha finito di piovere. Vado a piedi fino al porto per digerire un po’ tutta la sapienza che ho raccolto. Allora mi accorgo che forse alla fin fine il Mediterraneo reale era, ed è sempre stato durante il convegno, là fuori. Allora vedo che esso si manifesta solo parzialmente nelle costruzioni logiche del sistema o nelle parole dei dotti, emergendo anche nella pazienza del pescatore e nella saggezza del popolo che abita la costa. Allora sento che esso è nella brezza del mare che sa di Africa, di Asia e di Europa e non nelle sale dei convegni, tanto protette dalla pioggia quanto, a volte, dalla vita.