E dopo?
Interrogativi e speranze dei giovani d’oggi
«Quante le strade che un uomo farà fin quando fermarsi potrà?
Quanti mari un gabbiano dovrà attraversar per giungere a riposar?
Risposta non c’è o forse chi lo sa, perduta nel vento sarà».
(Bob Dylan)
Me lo sono sentita ripetere a ogni bivio, a ogni scelta. Me lo sono chiesta io stessa ogni volta che decidevo di intraprendere una strada piuttosto che un’altra, ogni volta che arrivavo al capolinea di un’esperienza importante, un ciclo di studi, un viaggio, un’attività di lavoro, una relazione – di qualsiasi tipo: ogni volta che abbandonavo un sentiero già tracciato o conquistavo una vetta. Ogni volta che mi trovavo a fare i conti con uno spazio che prima non vedevo perché era coperto dall’orizzonte: l’oltre. «E dopo? Cosa farai?»
Sospesa sull’ignoto
Già. E ora cosa farò? Ora che ho oltrepassato la linea della fine e non posso più passare dal via un’altra volta per ritirare i soldi. Sospesa tra il mondo degli studi e quello del lavoro, tra il vincolo che mi lega alla famiglia dove sono cresciuta e il desiderio di formarmene una mia, nuova, tra la casa dove sono nata e quella in cui ho scelto di vivere, mi trovo in un limbo ben popolato che cerca di costruire un progetto di vita a piccoli passi, a piccole rate. Il progetto è uguale a quello dei miei genitori e dei miei nonni: mantenersi, farsi una famiglia. Solo che per tanti ragazzi della mia età che dopo l’università ancora si arrabattano come possono tra master, dottorati, collaborazioni a tempo determinato, lavoretti con data di scadenza, stages non pagati, il futuro è incerto e di conseguenza un progetto di vita a largo respiro è materialmente più difficile, non solo da realizzare, ma anche da pensare. Allo stesso tempo, la moltiplicazione delle libertà e delle possibilità di fare cose impensabili per le generazioni che ci hanno preceduto provoca un disorientamento come mai prima d’ora. E aumenta la responsabilità e l’ansia quando si deve compiere una scelta, visto che la conoscenza delle variabili e delle opzioni alternative è maggiore.
L’indeterminatezza di ciò che deve ancora venire non è in questo caso l’apertura che schiude la speranza, davanti alla quale tutto si può ancora creare, ma è invece la chiusura dell’insicurezza che taglia le ali e tira a terra. La tensione verso ciò che ancora non è e allo stesso tempo la paura che esso già non sia più, la sensazione diffusa di temporaneità, la percezione della precarietà, sono una morsa dentro la quale si aggrovigliano i miei interrogativi, come quelli di tanti miei coetanei. Siamo schiacciati in questo spazio bidimensionale che parte da ‘ora’ e arriva a ‘fino a quel momento’ come gli antichi che credevano che la terra fosse circondata dalle acque e poi non ci fosse più nulla. E si precipitasse. È proprio questa la soglia su cui si ferma la domanda ‘e dopo?’: il precipizio dell’ignoto, del domani, del giorno in cui scadrà il contratto, come anche del giorno in cui mi disilluderò o non sarò più innamorata: il giorno in cui quello che credevo fosse un cammino, la mia storia, non si rivela che un semplice e – più o meno – fugace passaggio. Si fa fatica a rendere ragione di questo momento, non si riesce a immaginarlo, come pure non si può fare affidamento su di esso. Non lo si vuole. I miei genitori hanno costruito una casa sulla roccia, io non dovrò forse adattarmi a inventarne una che stia in piedi anche sulla sabbia?
La prigionia del presente
Non parlo solo della vita lavorativa, in cui le tanto agognate condizioni di flessibilità del mercato del lavoro si sono rivelate un produttore micidiale di lavoratori a tempo determinato, precari, senza le tutele tradizionali delle conquiste sindacali e senza certezze. Penso anche alla vita sociale e affettiva cui siamo esposti, molte volte pure già consapevoli del decorso di cui sarà vittima, nel grande tritacarne dell’usa e getta. Si comincia e si finisce. Per sempre? Ci sarà qualcosa che dura? È questo l’interrogativo complementare alla domanda sul ‘dopo’. Ce la faremo a far durare qualcosa? Se questa domanda ha una risposta negativa vengono a cadere la dimensione della profondità e soprattutto la prospettiva della speranza che si apre sull’infinito, cioè su quell’unico concetto inconcepibile in cui la dimensione del ‘dopo’ è rimandata interminabilmente. In questo modo l’unico spazio di manovra che rimane è quello compresso nel presente: domani è un altro giorno. La strategia è vivere alla giornata, senza memoria e senza progetto. È in queste condizioni e con queste premesse, sia materiali che spirituali, sia nel campo del lavoro che degli affetti, che la domanda sul presente si carica della drammaticità dolorosa del dilemma di chi ha le spalle al muro e si sente mancare la terra sotto i piedi: «e adesso che faccio?» Credo sia un quesito che possa rasentare la disperazione.
Di fronte a queste insicurezze e a questi piccoli quotidiani scoraggiamenti gli altri interrogativi pesanti che pure vengono posti all’interno delle discussioni informali e delle chiacchiere tra amici sono presto soffocati senza aver dato loro un respiro pubblico. Senza averli lasciati scorrere vigorosi fino all’azione e all’impegno politico. Dobbiamo davvero cambiare il mondo? Sarebbe meglio cominciare a vedere che in tutto quello che facciamo c’è o ci può essere un ‘oltre’, un ‘dopo’. È questa la via di scampo alla prigionia del presente, l’orizzonte sul quale si può costruire qualcosa e quindi, forse, cambiare le cose.