Dal silenzio di Buda alla vita di Pest
Due città in una
Budapest e io ci siamo guardati subito negli occhi. Stessa tristezza, stesso silenzio, stessa impressione di riemergere a fatica da un passato di contraddizioni. E alla fine di tutto stessa autoironia intellettuale sulle nostre disgrazie,che appartengono soltanto a noi stessi e che, agli occhi degli altri, sono qualcosa di sfuggente, di incomprensibile o di struggentemente nostalgico.
Budapest mi ha atteso in questa duplice dimensione che la contraddistingue da sempre. Buda di qua e Pest di là ne rappresentano lo spirito duale, come nella grammatica greca dove, accanto al numero singolare e plurale, esiste anche questo numero così originale e unico. Due non sono una pluralità. Due sono un binomio, un accoppiamento, un gemellaggio, un incontro, perfino un’antinomia, ma pur sempre qualcosa che si rivela e si manifesta in aperta associazione di singolarità distinte o addirittura contrapposte.
In fin dei conti spesso noi siamo l’uno e l’altro, l’uno contro l’altro, l’uno accanto all’altro. Ci sentiamo caldi e freddi, appassionati e timidi, felici e tristi, coraggiosi e paurosi, forti e deboli. Tra di noi ci sono ponti tesi verso l’altra dimensione e viviamo su questi ponti, che altro non sono che il desiderio di andare dall’altra parte.
Budapest non arriva
Ho attraversato il Ponte Széchenyi, con il vento che mi tagliava violento e gelido e che si proponeva a me nella sua forza profonda. Il freddo non mi disturbava e, anzi, penetrava sinuosamente nelle mie narici e nelle mie orecchie, sollevandomi dolcemente sul Danubio.
Buda ha accarezzato la mia tristezza languida e sottilmente pessimistica. Sotto la neve insistente il silenzio mi ha parlato. A Buda la neve non può attutire nulla, semplicemente perché Buda è già silente. Non fa rumore, tace e ascolta. Perfino uno stuolo di bimbi, mentre giocava in mezzo alla Toth ìrpad sétany, uno dei bastioni del Castello, comunicava una gentilezza ovattata e rassegnata.
Sono tornato due volte alla chiesa di Mattia Corvino, affascinato dalle sue incredibili e coloratissime decorazioni murali, fatte di un incrocio tra uno stile ornamentale turco e una tradizione popolare originale e geniale. Ho trovato quella chiesa un esempio dello spirito ungherese, che è quello di un popolo unico, irripetibile e diviso da sempre tra ciò che è e ciò che non è: non è slavo né latino né indoeuropeo. È semplicemente un popolo sconosciuto a se stesso, così complicato da parlarsi addosso in una lingua apparentemente folle, incomprensibile, bizzarra e ricolma di accenti curiosi: anche tre per parola. È un popolo che ama compiacersi del suo isolamento e della sua originalità.
Gli ungheresi sono stati ingiustamente definiti zingari, come se il loro destino fosse sempre stato quello di errare. Al contrario manifestano soltanto un desiderio di appartenenza definitiva a una terra che sia come un castello rassicurante. Come tutti, amano stare in una casa che appartenga loro. Budapest è la casa che li accoglie e li svela. I suoi ponti sono i lacci che la tengono insieme: belli, lunghi, austeri, quasi solenni. Rappresentano il tentativo di superamento di questo spirito duale, l’anelito all’unificazione interiore, il braccio teso verso un altro modo di essere e di vivere, il riconoscimento che la vita spesso riserva queste separazioni che cercano insistentemente una ricomposizione.
Sono tornato da Budapest con sensazione lucidissima di contrasto tra un presente che esplode in una voglia sfrenata di novità, di liberazione e di vita e un passato che condiziona ancora pesantemente questa tensione dirompente.
I filobus e i tram dell’era sovietica, le Lada scassate, i mercati popolari della periferia, dove c’è chi vende un salame o un cucciolo di cane in gabbia, sono la pesante contraddizione tra ciò che questa città vorrebbe essere e ciò che purtroppo non è. Ha questo passato che ne costituisce un’ipoteca soffocante sul presente. A Budapest manca sempre qualcosa per essere al passo con le altre città dell’Ovest. Budapest si porta dentro una zoppia non voluta, una malinconia strisciante, un senso di decadenza rude. Budapest sta per arrivare, ma non arriva, non arriva, non arriva.
Dal sonno alla liberazione
Ciò nonostante, Budapest cresce e non invecchia. Oserei dire che rinasce. Anzi, dico proprio che in essa la speranza rimonta. Il sonno è finalmente finito e Budapest adagio adagio si scuote dal suo torpore, che sembrava infinito. Le città, a differenza degli uomini, non sentono il peso degli anni e hanno davanti a sé un destino potenzialmente immortale. Sono inarrestabili.
Sono stato alla Grande Sinagoga della Dohany Áštca. Ho messo la ‘kippah’ in testa e poi ho alzato lo sguardo su quel mondo scomparso. Perché l’ebraismo ungherese è semplicemente scomparso: 400.000 morti nel soffio infuocato dei ‘Vernichtungslager’ nazionalsocialisti. Morti per niente, dal primo all’ultimo. Senza un perché.
Un senso di angoscia mi ha assalito e una domanda adesso mi insegue: ‘E se fossi anch’io ormai scomparso come loro? E se anche a me fosse stato riservato un destino simile?’. Il fantasma di Szálasi è ormai solo un fantasma, ma Budapest se lo porta dentro, con le sue migliaia di vittime innocenti e le sue distruzioni gratuite. Deve liberarsene con vigore e tenacia.
Alla periferia della città c’è il Parco delle Statue, che testimonia l’impossibilità di cancellare un passato difficile. Decine di statue dell’epoca sovietica non sono state distrutte, ma semplicemente rimosse e conservate come un brutto quadro di famiglia ormai invecchiato e messo in soffitta.
Budapest non sembra provare rabbia o rancore. Legge il socialismo con pudica vergogna e lo rimuove giorno dopo giorno. Ognuno ha il suo socialismo da dimenticare.
Prendere la direzione
Ho lasciato Budapest sotto una tormenta di neve. La neve mi ha sempre dato allegria e quindi è come se io avessi sorriso per la prima volta a questa città così sofferta. Lasciandola, ho pensato alla prima e ultima donna che ho incontrato in città.
Appena arrivato in VÁ¶rÁ¶smarty tér, ho incrociato una ‘konzumlányok’. Mi ha chiesto qualcosa in ungherese e io ho fatto il finto tonto: «I’m sorry». Poi è passata all’inglese e io ho capito le parole e il senso della domanda: «Come ti chiami?». «I’m sorry» – ho risposto ancora. Ed è stato come se io mi fossi detto dispiaciuto due volte: una per non avere capito subito il senso del suo approccio e una per non avere voluto darle lavoro. Poi ho svoltato e me ne sono andato. Incorreggibile, inestimabile e codardo fino in fondo.
Poi, l’ultimo giorno, sotto una nevicata sovietica, fuori dall’albergo ho incrociato una vecchietta con due borse di plastica e quegli orrendi stivaletti a mezzo polpaccio dell’epoca di Breznev. Si è lamentata con me in ungherese, indicando la strada impraticabile e sporca. Non avevo la minima idea di quello che dicesse. Però ho immaginato che mi rivelasse che, quando c’era János Kádar, l’ultimo comunista, allora sì che pulivano le strade dalla neve. Belli i tempi in cui si stava meglio perché si stava peggio.
Sotto sotto penso di non averle incontrate per niente. Anzi, tutt’altro. Budapest me le ha messe sulla strada, come in un bivio dove bisogna prendere la direzione.
Sotto sotto preferisco la ‘konzumlányok’. Soltanto il suo stimolo a osare può portarmi dal silenzio di Buda alla vita di Pest.