Com’era prima?
Diario da Sarajevo – III
Rappresentanti delle tre etnie
Durante il viaggio per Sarajevo, oltre al confine paesaggistico tra la Bosnia e l’Erzegovina, Ljubica ed Edina tentano di spiegarmi il sistema politico del loro Paese. Allora, c’è un high rappresentative scelto dalla comunità internazionale. Era un austriaco, ora è uno scozzese ubriacone, dicono. Non si può neppure tradurre questo titolo nella loro lingua. È l’high rappresentative e basta, il garante, da quanto ho capito. Sotto stanno i rappresentanti delle tre etnie: un musulmano, un serbo e un croato. E loro governano. Se si mettono d’accordo, mi sembra di intuire… boh, è un terreno un po’ spinoso. Piove, a Sarajevo, come era caldo a Mostar. La città convive nei suoi grattacieli di periferia, nei cadaveri di edifici neri e vuoti, nei bei palazzi austro-ungarici del centro e del lungofiume (dove è stato tutto ricostruito), nel quartiere turco di case basse (che io chiamo così per comodità avendolo letto nella guida Lonely Planet, in realtà Edina dissente… ma il nome vero resta comunque impronunciabile), nelle mille moschee. Nel quartiere serbo su sulla collina, nelle sue case ancora sventrate e i cartelli stradali in cirillico. Nella bellissima biblioteca nazionale dallo stile arabeggiante ma ancora chiusa e bruciacchiata. Nei buchi a terra delle granate ricoperti di cemento rosso per non dimenticare le vittime. Nei cartelloni pubblicitari: un’autostrada per la Bosnia, recitano alcuni, altri: Srebrenica, (dopo la riesumazione e l’identificazione dei corpi delle fosse comuni) riposino in pace. Nelle cartoline pubblicitarie che da noi sponsorizzano prodotti, là invitano la popolazione a consegnare eventuali armi rimaste ancora dalla guerra.
Edina mi ha raccontato che una volta, mentre era sul pullman Tesanj-Konstanz, sono stati fermi tutti quattro ore al confine sloveno perché la polizia di dogana aveva trovato un ragazzo appena diciottenne che viaggiava con loro pieno di pistole e bombe a mano che andava a rivendere in Germania.
Caffè bosniaco e tortine di latte e mais
Sono gli zii di Edina che ci hanno ospitate a Sarajevo. Caffè bosniaco e tortino di latte e mais, verdure ripiene. Non c’è l’agnello. Ma l’ho già mangiato più volte. Hanno la parabolica e guardano quasi solo tv tedesca. Hanno una cocorita in una gabbia che si chiama Cocò, come Cocò Chanel. L’ho presa in Germania per i bambini, dice Sada, la zia. Durante il viaggio di ritorno, il primo agosto 1998, se la ricorda bene la data, se l’è tenuta sulle ginocchia per tutto il tempo (tragitto Monaco-Sarajevo) e il marito sbuffava perché faceva caldo e non si potevano aprire i finestrini perché altrimenti l’uccello si ammalava. Però ha resistito, erano felici: si tornava a casa.
Sada non parla benissimo in tedesco, però mi racconta volentieri. Io faccio domande volentieri. Mi mostra le foto. Ecco, questa ad esempio, spiega, è una delle poche foto di prima della guerra. Dino (il figlio più piccolo) avrà tre anni. Ce l’hanno data, aggiunge. Dino ci chiede sempre di com’era da piccolissimo. Non abbiamo più sue foto perché sono state tutte bruciate. Durante la guerra la casa è stata bruciata tre volte. Chiedo ad Edina come l’hanno riavuta, dopo. Ci sono documenti che attestano la proprietà naturalmente. E poi, chi altro vuoi che vada ad abitare in una casa bruciata?
La famiglia di Ljubica, ai tempi del trasloco da Zenica a Mostar, aveva fatto scambio di appartamento con una signora musulmana. Suo marito era morto durante la guerra per mano croata e ora lei non voleva più rimanere là.
Una striscia bianca all’orizzonte
A Sarajevo, dopo la visita alla cattedrale e alla moschea, quando manifesto la volontà, fosse solo anche turistica, di visitare la chiesa ortodossa Edina mi sorprende (e forse si sorprende anche lei). Non vengo, dice, questa è la chiesa dei serbi e tu non sai, non puoi immaginare cosa hanno fatto alla mia gente durante la guerra. Tu non sai, non puoi capire. Sì, infatti voglio entrare. Purtroppo è chiusa.
Ora guardando Sarajevo dall’alto, salendo sopra la villa costruita dagli austriaci come caserma, c’è una striscia bianca ai piedi dei monti all’orizzonte. Sono croci. O piastrini che segnano le tombe musulmane. Non si distinguono da qui. Sono le vittime dell’assedio.
Da quanto ho finora capito c’erano manifestazioni e disordini di fronte al palazzo del neogoverno. La Bosnia si era da poco dichiarata indipendente ma, al riconoscimento del nuovo stato da parte di UE e Usa, i serbo-bosniaci danno il via alle ostilità. I cecchini serbi si posizionano nella città, così, improvvisamente. A chi va a prendere il pane come tutte le mattine sparano vicino alle gambe. Le prime vittime sono due ragazze, studentesse, sul primo ponte che attraversa la Miljacka andando verso Skenderia. Quello dopo fu a sua volta già maledetto da Gavrilo Prinzip il 28 giugno 1914. L’assedio è facile: la città giace attorniata dalle montagne. I carri armati serbi sono nei punti strategici. I bosniaci sono chiusi dentro, mentre l’esercito bosniaco si organizza. Era una scaletta già decisa. Ma la Bosnia di Edina e Ljubica, come quella di Danis Tanovic e di Zlata Filipovic, sembra essere colta di sorpresa.
Cercavano di darmi lezioni di storia jugoslava. Quando Milosevic decise che la terra su cui abitava anche un solo serbo dovesse essere terra serba cominciò, in forme nascoste, la pulizia etnica. Ad esempio veniva costruito un ospedale in una zona con maggioranza di popolazione musulmana e il personale poi assunto per lavorarvi dentro era serbo. Dottori e infermieri con le rispettive famiglie andavano a colonizzare nuove terre. Un po’ come gli ebrei e i palestinesi. Poi via via le modalità si fecero più orribili. Lo stupro programmato avrebbe portato quelle donne ad abbandonare la terra maledetta che le aveva viste violate.
Andare avanti
Canta bene, Sada. Le piace cantare e ha una voce decisa. Poi però ha gli occhi lucidi quando parla della gente normale che ha vissuto la guerra, quando parla di sé, di loro. Ma ora va meglio. È tutto finito. La gente si stupisce a vedere i suoi figli che, così grandi, vanno ancora in vacanza con i genitori. Ma noi ci vogliamo bene, dice. E andiamo avanti.
Decido di fare una torta per loro. La mia mamma mi manda dall’Italia in tempo reale via sms la ricetta della crostata di mandorle. Sono sola in casa con gli uomini della famiglia. Chiedo loro se hanno una bilancia. Jusuf si prodiga molto. È sicuro che ci sia da qualche parte, l’ha vista, ci deve essere. Alla fine non la trova e io e Dino giudichiamo a occhio e croce il peso di bicchierate di farina e di zucchero. Quando Sada ritorna ricorda al marito che la bilancia non ce l’hanno. Vedi, mi dice, lui si ricorda di quella che avevamo prima. Prima è sempre prima della guerra. Ci sono queste categorie che emergono dai loro racconti: quella del prima e quella del dopo. Prima potevano viaggiare liberamente senza il bisogno di mendicare un visto. Prima vivevano insieme. Serbi, musulmani, croati. Prima non si odiavano da uccidersi, né crescevano nell’odio e nella lacerazione. Prima… ma c’è stata una guerra in mezzo. Impossibile da dimenticare. E loro stessi si chiedono come saranno i bambini del dopoguerra cresciuti senza sapere che cosa sia la convivenza pacifica. Come faranno a rispettarsi e a non odiarsi se non hanno nessun ricordo, nessuna certezza che li ancori al pensiero di una realtà diversa da quella che sono abituati a vedere. Servirebbe quell’immaginazione che sto cercando di usare io.
Costretti a essere stranieri
A fare da spartiacque di significato, dunque, il conflitto. Sono due mondi, ma sempre una stessa terra. In mezzo, per questa piccola gente, la Germania. Stranieri in terra straniera. Io no, non l’ho mai provato. Perché non si sceglie di essere stranieri, si è costretti ad esserlo. Non ospiti, non turisti, non studenti Erasmus, non cittadini dell’unione europea.
Qui siamo fuori. Fuori.
Qui l’Unione Europea è un principio escludente e discriminante, non unificante come lo è per noi.
Qui è già Balcani. L’Occidente si incontra con l’Oriente. O si scontra. Come nella tettonica a zolle. Nelle zone di confine ci sono terremoti e vulcani. Un’attività sotterranea di ebollizione che ogni tanto sfocia nelle catastrofi dei superficie. Qui ci sono i minareti a dipingere un paesaggio che potrei scambiare per veneto. E tante case rosse di mattoni. Sono state ricostruite, ma sono anche finiti i soldi prima delle malte fine esterne. Qui a mezzogiorno si sente l’imam che canta. No, mi corregge Edina, invita i fedeli alla preghiera. E i cimiteri sono pilastrini di marmo conficcati nel terreno, nella natura, anche vicino alle case. Non deve essere un luogo lontano, recintato da mura. I nonni di Edina stanno alla Skapurberg, la montagna degli Skapur lì dietro il distributore di benzina. Non ci sono fiori ma erba di campo. Hanno ragione, tanto alla fine ritorneremo tutti là. Alla terra.
La speranza
Lampeggia il trattino di Word. Lampeggia nel vuoto. Non mi viene in mente nessuna massima, nessun aneddoto, nessuna citazione, nessuna frase filosofica. Nulla. Solo due tragiche barzellette bosniache…
Ci sono Suljo e Fata che camminano per strada ma Fata cammina davanti a Suljo. Li vede il vicino e dice all’uomo: «Ma come, Suljo, nel Corano è scritto che la moglie deve sempre stare dietro al marito!» Gli risponde quello: «Caro mio, quando hanno scritto il Corano mica c’erano i campi di mine!!».
Suljo è ferito ed è ricoverato nell’ospedale militare, a Sarajevo. Fata lo va a trovare e gli racconta di come sia riuscita ad arrivare fin lì dal paese. Gli spiega di aver fatto l’autostop e di come un soldato dell’ONU si sia fermato e le abbia proposto, a ricompensa del passaggio, o di cantargli una bella canzoncina o di fargli un pompino. Allarmato Suljo le chiede: «Beh, che canzone gli hai cantato?» «Ma come, Suljo… cantare?! Con te in queste condizioni all’ospedale?».
… ma mi vengono i mente anche Ljubica, Edina, Veca, Adnan, Marta, Dominik, Kenan, Dino, Valentina, Mirsad, Nermina, Ilija, Ljilia, Sada, Jusuf, Adem, Elvir, Sabina, Denica…
e allora ho ancora speranza.