Camminando si tratteggia il confine
Recensione all’ultimo libro di Giuseppe Stoppiglia
Tornare a essere figlio
Ciò che si sente con intensità leggendo questo nuovo libro di Giuseppe è che segna il suo tornare a esser figlio. Non perché non sia più capace di paternità ma perché costruisce una sintonia particolare tra il suo tempo biografico, lui stesso parla di un tempo del tramonto, e il sentimento del tempo nostro, che è un tempo fortemente segnato dal finire, e dal consegnare almeno in Europa, almeno in occidente. «Il terzo millennio si apre su un tramonto. Non vi spaventate: è uno di quei tramonti che si consegnano all’alba, la luce non è mai del tutto inghiottita dalle tenebre» (p. 42).
Possono esserci modi diversi di finire: c’è un finire che è anche una messa in semina ed è un compimento del tutto particolare e c’è un finire drammatico che è quello che tenta di strappare qualunque filo dell’ultimo raccolto, che non si rassegna alla consegna. È come se si sentisse, in questo testo, che Giuseppe sta mettendo in semina.
E colpisce ciò perché uno dei segni del nostro tempo è che è un tempo che permette, in alcune parti del mondo, il convivere di almeno quattro o cinque generazioni. È la prima volta che società diffuse vivono l’esperienza della convivenza di quattro o cinque generazioni: moltissime donne e moltissimi uomini vivono in società che permettono di nascer figli, di diventare padri e madri (nelle diverse modalità: quella biologica, culturale, spirituale, della responsabilità) e di diventare poi padri e madri non solo dei propri figli ma anche dei propri padri e delle proprie madri che si ammalano, che si fan fragili, che perdono il lavoro, che si affidano che chiedono affetti. E non è l’ultimo passaggio perché poi toccherà loro di vivere un’ulteriore avventura, una quarta nuova nascita che è quella che vedrà impegnati a provare ad apprendere il diventare figli e figlie dei nostri figlie e delle nostra figlie. «La mia seconda nascita è stata segnata dalla scoperta della sofferenza personale e collettiva» (p. 85).
Nasciamo figli e ci auguriamo di morire figli, in mani d’altri, affidati, sotto il segno della vulnerabilità, quindi. Quella vulnerabilità nella quale siamo originati e affidati e a cui torniamo ad affidarci infine.
Vulnerabilità accettata e scambiata
Molte volte, nel libro, Giuseppe si chiede con una certa preoccupazione della fine del legame sociale e c’è una pagina in cui individua proprio nella debolezza la possibilità di provare a tessere un nuovo legame sociale che regga (p. 55). Lì, credo, ha colto uno dei segni dei tempi: solo nella vulnerabilità accettata e scambiata reciprocamente, accolta e sostenuta, potrà darsi una nuova forza del legame sociale. Ma questa dovrà fare i conti con un’altra grande sfida: quella della grandissima vicinanza, della pressione che donne e uomini che ci stanno vicini, e sono subito tutti quelli del mondo, operano su di noi.
Tempo dell’estrema vicinanza: il mondo è subito qui, presso di noi, nelle nostre quotidianità a chiederci di render conto delle nostre scelte, dei nostri gesti, a chiederci una particolare cura nella destinazione dei nostri affetti, una particolare piegatura dei nostri atteggiamenti psicologici.
Questa vicinanza è difficile, è pesante; è una vicinanza che non sta favorendo la prossimità tra noi, che non sta favorendo la cura responsabile tra noi. Anzi, è una vicinanza che sta facendo sorgere il fondo oscuro che inevitabilmente portiamo dentro di noi, lo fa emergere in forme delicatissime, consuma la nostra capacità di stare in relazione, di costruire le norme, gli affetti reciproci, i legami. Si è fatto così sottile il limitare tra desiderio di vita e fascinazione del nulla, «respiriamo ovunque la presenza di un’ombra di morte» scrive Giuseppe (p. 105). «L’ombra che è in noi. La grande solitudine interiore» (p. 171). Lo avvertiamo: si è fatto sottilissimo il confine tra vita e morte dentro le psicologie delle singole persone, dentro la trama delle storie che legano alcune persone tra loro, dentro l’avventura delle comunità, dentro il destino del mondo che si fatica a disegnare.
E questo è un crinale difficile, appunto. Il confine che tratteggia Giuseppe con il suo camminare: si potrebbe dire che camminando si tratteggia il confine, un po’ oltre Machado, ed è un confine delicatissimo, anche tragico.
È il confine di questa consapevolezza che stiamo forse giocando la vita dell’umano, l’avventura dell’umano sulla terra. «Il valore di tutto ciò che è umano» (p. 190). Come faremo a liberare noi e gli altri della nostra, della loro paura di fronte all’altro? Come faremo ad accettare quella vulnerabilità? Come faremo. Sono domande che portano sull’estremo confine.
E non sarà tanto importante riuscire a trasformare, non sarà tanto importante riuscire a migliorare il mondo. Non sarà importante questo quanto che il gesto, anche quello della politica, della denuncia, conservi l’attesa di terre nuove e cieli nuovi, ne serbi la traccia simbolica. È tutto ciò che resta.
È sul confine ciò che cammina: «Tutti i giorni, quando posso, vado a salutare il fiume Brenta», scrive Giuseppe. «Quell’acqua che si fa ambigua, che si increspa» (p. 156) appare confine tra vita e morte, tra desiderio d’amore e consumazione fino alla fine.
Mettere in semina le nostre vite
Ciò che si gioca della vita, di sé, è ciò che attraversa queste pagine che ci aiutano a far un po’ fronte a questo indebolimento, all’istinto di negazione. Di annullamento, di auto distruzione.
Giuseppe dice «costruire una relazione in verità» (p. 39): cioè in presenza reciproca, lì di fronte, presenza in cui non si dica solo, in cui si invita a dire “eccomi!”, nell’estrema vicinanza, riaprendo gli spazi tra noi e la cura possibile. E ancor prima di dirlo, provare a farlo perché tante volte nel libro Giuseppe si trova sorpreso e trova sorpresi donne e uomini a parlare prima coi gesti e a capire cosa avevano giocato dell’umano in quei gesti solo dopo, un poco dopo.
Ed è “un poco dopo” che Giuseppe ha capito cosa voleva dire pregare, dopo averlo visto fare in quel modo per suo padre e per sua madre. Il padre inginocchiato e la madre in piedi. È la traccia simbolica di quei gesti, è l’annuncio di quei gesti che poi abitiamo da figli. Forse le pagine più belle del libro.
Ma è importante in una società che ci fa nascere figli e nella quale solo tornando a saper essere figli, potremo saper vivere e morire consegnando dopo ogni consumo, mettendo in semina le nostre vite.
Raccogliere le storie come ha fatto Giuseppe allora, non è fissarle anzi è schiodarle. Schiodarle, sì! E Giuseppe ha saputo schiodare anche le storie a cui è più legato, quelle dell’impegno politico, e le ha riattraversate provando a cavarne il succo: quello appunto che si può tornare a seminare oggi.
C’è una grandissima ansia in queste pagine: quella del rapporto tra le generazioni, è un’ansia bella e interessante. Non è l’ansia dell’adulto che vuole trasmettere ma è un’ansia di chi, adulto, vuole costruire un terreno da coltivare insieme con i giovani. E poi, più radicalmente, con i bambini. «Non esiste l’infanzia, esistono solo bambini e bambine» (p. 89).
Scoprire una luce nuova
Gli ultimi paragrafi del libro sono dedicati ai bambini e alla politica. Ma le ultime righe sono dedicate alla speranza dell’invisibile.
Vale la pena aver vissuto e vivere non perché il futuro sarà migliore ma perché nel presente si scopre una luce nuova, un nuovo colore riservato agli occhi di coloro che amano.
E gli occhi di coloro che amano sono simili agli occhi di coloro che muoiono e sono simili agli occhi dei bambini. Non c’è più quella distanza oggettivante tra sé e la realtà esterna, c’è un ravvicinarsi fortissimo “quasi in nuova innocenza” come dice Raimón Panikkar che Giuseppe più volte richiama e che vale la pena tornare a frequentare. Una nuova innocenza non pacificante, con dentro tutto il senso di tragedia ma anche di possibile dolcezza.