Ascoltare la voce dell’uomo dietro gli steccati del sacro
Echi di storie dal Brasile
«Pregava?».
«Sì, pregava Sant’Antonio
perché fa ritrovare
gli ombrelli smarriti e altri oggetti
del guardaroba di Sant’Ermete».
«Per questo solo?» «Anche per i suoi morti
e per me».
«È sufficiente» disse il prete.
(Eugenio Montale, da Satura)
Di recente mi è stato chiesto se in Brasile avessi trovato Gesù Cristo. La domanda mi ha spiazzato. Ho risposto che non ci avevo pensato ma che mi è capitato di riscoprire la sacralità della vita al di là dei nomi e delle religioni e di trovare una chiesa che sta dalla parte dell’uomo, del popolo, degli oppressi e degli esclusi.
La croce e la stella rossa
Sulla giacca della festa, appesa all’attaccapanni, avevano trovato posto due spillette. Una era la croce dorata di Cristo, di quelle che di solito hanno i preti, l’altra la stella rossa del PT, del partito dei lavoratori brasiliani, simile alle mille stellette rosse che si trovano ancora sulle bancarelle dei nostalgici sotto i resti del muro di Berlino. Jorge li sfoggiava con disinvoltura perché alla fin fine credeva fossero sfaccettature diverse di un unico impegno e di un unico mistero: l’uomo, e che rappresentassero declinazioni diverse di un’unica responsabilità: quella verso gli esclusi.
Tanto semplice da essere disarmante. Le ideologie che mi portavo dentro invece mi appesantivano e mi facevano capire in modo astratto e schematico, irreale. Era forse il dazio della cultura libresca con cui ero uscita dall’università e che si scioglieva sotto il sole dei tropici, dove il papa è lontano e il popolo ha fame. Con la forza della sua naturalità, di una natura ancora potente sull’uomo, di una quotidiana rivelazione e allo stesso tempo imposizione della sua sensualità, il Brasile mi schiacciava a terra.
Jorge mi parlava della teologia della liberazione, del riscatto degli oppressi e io lo interrogavo riguardo le sue radici teoriche: marxismo? Socialismo? No, il vangelo. Mi parlava della chiesa e io mi immaginavo San Pietro e la morale cattolica che invita gli italiani a non andare a votare per il referendum sulla procreazione assistita. Era quella la chiesa? No, lui intendeva la chiesa del popolo, che è popolo di Dio. Jorge mi diceva che lui era prete, ma che poi si era sposato, continuando a fare il suo lavoro in mezzo alla gente, fuori dalla chiesa ma dentro al suo popolo. E io non capivo. Non riuscivo a conciliare quello che raccontava lui e quello che ero abituata a pensare io, non mi pareva stessimo parlando della stessa cosa. Mi sembravano due concezioni diverse, che non si escludono tra loro ma che fanno capo a due diversi punti di vista. Uno, il mio, è quello dall’alto, che genera la chiesa delle cattedrali, gerarchica e dogmatica, ligia ai suoi precetti ma forse a volte priva di buon senso, l’altro è quello dal basso, che nasce dalla parte della piccola gente, degli esclusi, dei poveri, della strada e che fa nascere la chiesa umana, la chiesa profetica. Quando Jorge si è sposato la chiesa lo ha abbandonato, lo ha lasciato in mezzo a una strada, il suo popolo invece no. Davanti a questa testimonianza mi chiedevo da che parte stesse l’umanità, cioè la capacità di essere umani. Sicuramente non dalla parte del potere, né da quella delle gerarchie e delle oppressioni che esso genera.
Cantare la vita
La chiesa profetica è una piccola comunità di gente di strada che è uscita dalla randagità per raccogliersi a vivere sotto le volte barocche abbandonate della chiesa della Trinità nella città bassa di Salvador, poco prima del mercato del pesce. Commentano la parola di Dio, si fanno suo popolo, pregano perché ciò dà loro la forza di andare avanti, condividono la vita in comunione, dormono in quella stessa chiesa in cui celebrano e in cui offrono a tutti i loro ospiti un piatto di zuppa la sera del giovedì, quando si rinnova il rito dell’ultima cena. Vestiti a festa, come si conviene, con l’altare addobbato, sono loro, i poveri, i diseredati, i miserabili, coloro che tra cembali e canti hanno offerto a me ospitalità e cibo. La pace, in un abbraccio gioioso. La fraternità, in una pratica di vita quotidiana di condivisione. Lontano dai protocolli e dalle etichette dei nostri cerimoniali, fedeli alla naturalezza e all’essenzialità, cui nulla manca. Per me una scheggia impazzita di luce nella pioggia del tropico estivo. Gli esclusi della società siedono al banchetto divino e si rallegrano. Enrique sorride mentre parla, dieci anni a dormire per strada e ancora sorride. Perché, lo racconta lui stesso, ha sempre trovato qualcuno pronto ad accoglierlo e a dividere con lui il suo cartone. Ora la comunità della Trinità è una briciola di chiesa profetica che vive in povertà, mitezza e comunione. Che profezia avete da svelare, chiedo io? Sorride ancora: che profezia si può annunciare, dice, se non la propria vita?
Dentro di me cadono rovinando le strutture, le ricchezze, le morali, le paternali, l’Occidente e il Settentrione, le giornate mondiali della gioventù, i diritti che vengono da Dio, la beneficenza e la chiesa delle indulgenze, cade la loro pretesa di dominio, il loro essere scambiate per fini quando in realtà sono solo mezzi. Il fine, profetico, umano, sacro, è sempre e indomita la vita.
Cosa sia il sacro
Nel caldo umido dell’Amazzonia ci si genuflette a spalle scoperte davanti all’altare. Prendo messa tra i caboclos e mi sembra improvvisamente chiaro che la messa è un momento della vita e ad essa deve essere congiunta, ad essa riferita: c’è qualcosa di sacro in noi e nella nostra normale esistenza che vale la pena preservare e celebrare, qualcosa di caro e di importante al punto di dedicargli un momento particolare e adatto, un po’ diverso dalla quotidianità, un rito. Ciò che è sacro è la nostra facoltà di essere uomini, la nostra capacità di amare e di sperare, la nostra tensione verso gli altri e verso Dio. Tutto questo non avviene nel modo privato di concepire una divinità o una vita buona per noi: come mi ripete padre Edilberto l’etica della persona umana è universale e sociale, cioè è un impegno condiviso, politico. L’individualità è solo una sponda della responsabilità di ognuno verso l’altro e la sua richiesta di dignità.
Edilberto mi ha donato un anellino di cocco nero. Si sovrappongono varie storie sul suo significato: un ragazzo ci racconta che il cocco trasmette alla pelle un balsamo speciale consentendo a chi lo indossa una vitalità perenne, altri ci dicono che significa essere sposati con la vita e la gioia di vivere. Edilberto mi dice che è un compromisso, cioè il proprio essere legati, coinvolti, ‘compromessi’, appunto, con la causa della giustizia. Mi dice che vuol dire stare dalla parte degli esclusi, prendersi la responsabilità anche per loro. Non lo so. Forse Cristo si trova proprio lì.